Nella complessa partita per contrastare l’egemonia cinese nella e-mobility, l’Europa punta ad accaparrarsi una parte consistente del bottino in dote alla Serbia, quella valle di Jadar ricca di litio su cui da tempo ha posato gli occhi il colosso minerario anglo-australiano Rio Tinto.

Le stime sono da capogiro: dalla miniera, che si vorrebbe operativa dal 2028, si prevede di estrarre fino a 58mila tonnellate di litio all’anno, abbastanza per alimentare le batterie di 1,1 milioni di auto elettriche. Per dare un’idea: nel 2023 Tesla, il primo costruttore di auto elettriche al mondo, ne ha vendute 1,8 milioni. Nel complesso, le riserve nella valle di Jadar sarebbero in grado di coprire il 90 per cento dell'attuale fabbisogno europeo di litio. Eppure il progetto targato Rio Tinto, già annullato due anni fa, continua a incontrare la resistenza dell’opinione pubblica. Con il rischio per l’Ue che Jadar si trasformi in un boomerang.

«Se il mondo intero è interessato, lo siamo anche noi». Era il settembre 2021 quando la cancelliera tedesca Angela Merkel si congedava dai Balcani prima del suo addio alla politica. Nel farlo, aveva affrontato il capitolo Jadar indicando la rotta da seguire. Da anni Rio Tinto aveva puntato alla valle di Jadar, un angolo della Serbia nord-occidentale al confine con la Bosnia-Erzegovina, che custodisce le più grandi riserve di litio in Europa e tra le più grandi al mondo, elemento essenziale nella produzione di batterie per le auto elettriche.

La corsa al nuovo oro, che risale ai primi anni del Duemila, si era poi concretizzata in un progetto da 2,4 miliardi di dollari per la realizzazione di quella che si ritiene possa essere la più grande miniera di litio in Europa. Per Berlino era e continua a essere essenziale che la spinta alla decarbonizzazione vada di pari passo con la competitività dell’industria automobilistica, nerbo dell’economia tedesca. Pochi mesi dopo la visita di Merkel, il progetto però sfumò di fronte alle inedite proteste che attraversarono la Serbia in nome dell’ambiente e della salute dei cittadini.

Le elezioni erano alle porte e il regime di Aleksandar Vučić rischiava di inciampare su una delle questioni più divisive nella Serbia post socialista. Lo scoppio della guerra in Ucraina aveva fatto il resto: stravolta l’agenda politica, del progetto Jadar non se n’è parlato più. O quasi.

Lavoro sotterraneo

Nel febbraio dello scorso anno, il portale di giornalismo d’inchiesta Birn aveva rivelato che Rio Tinto aveva continuato ad acquistare i terreni del sito proposto per la miniera nonostante il progetto fosse stato ritirato, un segnale che la corsa al nuovo oro aveva sì subìto una battuta d’arresto, ma senza mai realmente fermarsi. E quella corsa ora sta conoscendo una nuova accelerazione con il deteriorarsi delle relazioni tra Occidente e Cina.

Lo scontro è culminato proprio nel settore della mobilità elettrica dove è Pechino a farla da padrone. C’è la via, intrapresa con più convinzione a Washington che non a Bruxelles, dell’imposizione di dazi all’import di auto elettriche made in China per compensare i generosi sussidi di cui godono le case automobilistiche in patria. Per l’Europa poi c’è soprattutto la necessità di ridurre la dipendenza alla Cina dotandosi di proprie catene di fornitura di materie prime per veicoli elettrici, in particolare per la produzione di batterie.

È in questo quadro che si colloca l’intesa per un partenariato strategico Ue-Serbia sulle materie prime critiche, sulle catene di valore delle batterie e sui veicoli elettrici firmata nel luglio scorso a Belgrado. A testimoniare la rilevanza strategica dell’accordo, la presenza non solo del vice presidente della Commissione europea, Maroš Šefčovič, ma anche del cancelliere tedesco, Olaf Scholz.

La miniera di litio, ha spiegato Scholz, è necessaria affinché l'Europa «rimanga sovrana in un mondo che cambia e non dipenda da altri». È l’autonomia strategica a cui anche la Serbia, paese candidato all’Ue, è chiamata a fare la sua parte. E Belgrado ha risposto all’appello, impegnandosi a dare priorità alle case automobilistiche europee in cambio della creazione in Serbia di un’intera catena produttiva di batterie per auto elettriche.

Un investimento da circa sei miliardi di euro per centinaia di nuovi posti di lavoro. Il tutto, è stato l’impegno di ambo le parti, nel rispetto dei più elevati standard ambientali. C’è poi una dimensione geopolitica non trascurabile: per Bruxelles l’intesa con Belgrado, stretto alleato di Mosca e Pechino, è un segnale della «lealtà all’Ue» della Serbia, come l’ha ribattezzata lo stesso Vučić in un’intervista a Handelsblatt in cui ha rivelato che anche le case automobilistiche cinesi erano interessate a mettere le mani sul litio di Jadar.

Resistenza

«Una dichiarazione di guerra al popolo serbo». Quando il progetto di Rio Tinto venne accantonato, furono in pochi a pensare che fosse davvero finita. Ed ora che è ricomparso, il paese è tornato a opporre resistenza. Per le strade, sui binari delle stazioni, sui ponti. Una resistenza fisica a un progetto che continua a sollevare dei dubbi. Gli esperti avvertono dei potenziali impatti devastanti della miniera sulle acque sotterranee, sul suolo, sull'utilizzo dell'acqua, sulla perdita di biodiversità e sull'accumulo di rifiuti, denunciando i danni ambientali già provocati dalle trivellazioni effettuate da Rio Tinto nella fase preliminare del progetto.

Sulla reputazione della multinazionale poi aleggia l’ombra della violazione dei diritti umani e del disastro ambientale. E se è chiaro l’interesse del colosso minerario, che grazie a Jadar rientrerebbe tra i più grandi produttori di litio al mondo, non lo sono altrettanto le ricadute per l’economia serba. A complicare il quadro, c’è la sfiducia verso un sistema caratterizzato da una corruzione endemica e da profonde criticità nello Stato di diritto.

Il tutto in un momento in cui Belgrado è tornata a infiammare i Balcani di retorica nazionalista. Un quadro rispetto al quale l’Europa sceglie ancora una volta di chiudere un occhio. Nell’illusione forse che degli investimenti possano riportare il paese sui binari della democrazia.

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