La fine di Prigožin è puro cinema neorealista d’ispirazione sovietico-zarista. Produzione del Cremlino, sceneggiatura e regia di Putin che è anche attore protagonista.
L'attentato che ha abbattuto l'aereo di Evgenij Prigožin è cinema. Puro cinema neorealista, d'ispirazione sovietico-zarista. Produzione Cremlino. Sceneggiatura e regia di Vladimir Putin, anche attore protagonista. Il quale, nel dualismo dei thriller tra colpo di scena e suspense, ha scelto la seconda strada, quella che prolunga la tensione e la paura.
C'è il malvagio Prigožin che all'inizio, due mesi fa, sfida il potere del tiranno Putin con un colpo di Stato dapprima irresistibile e nel breve volgere di poche ore velleitario. Il malvagio si pente, mostra contrizione. Il tiranno si finge magnanimo, sembra perdonarlo, in fondo i due erano fino a poco prima compagni di merende, ma semina nello sceneggiato il primo indizio della suspense. Bolla il ribelle con l'epiteto per lui più infamante: “Traditore”. Tanto da indurre lo spettatore a non credere al proposito di salvargli la vita. Prigozhin è un morto che cammina e probabilmente lo sa. C'è solo da capire quando e come ci sarà l'esecuzione, o se il malcapitato sarà più furbo del suo duellante ed escogiterà uno stratagemma per cavarsela.
La trama
La trama si dipana e le successive scene, come da manuale di un buon film, non sono univoche. Il reprobo con le sue truppe viene confinato in esilio in Bielorussia, ma riappare a Mosca alla corte dello zar, libero, in buona salute, persino sorridente. Alla sua “orchestra”, la Wagner, vengono tagliate le unghie, non potrà più operare in Ucraina, continuerà a scorrazzare in Africa però. Siccome Prigozhin ha un discreto seguito popolare per le imprese patriottiche certificate, c'è da demolire il profilo del personaggio che il suo Frankenstein ha contribuito a creare.
Sullo schermo scorrono le immagini della sua villa eccessiva a San Pietroburgo perquisita dalle truppe speciali, un misto di gusti tra lo stile Casamonica e un'azienda hi-tech, più armi, oro, montagne di rubli: quanto basta per sbugiardare il fustigatore delle élite. Che da incoerente scade a ridicolo quando la telecamera indugia sui suoi travestimenti con parrucca. E voi, o popolo, continuate ad amarlo uno così? Del resto era già improbabile in tenuta da guerrigliero con gli occhi bovini, lo stomaco prominente, la corporatura pingue.
Parallelamente il regista dà conto dell'erosione del potere economico, militare e mediatico del cattivo. Fine dei lauti contratti con lo Stato per la sua azienda di catering, niente più armamento pesante ai suoi miliziani, chiusi i siti online e la sua fabbrica dei troll. E siamo vicini all'epilogo, prima del quale serve però lo scarto sul filo di una tensione sapientemente dosata. C’è Prigozhin sulla scena, chissà quando girata, in un luogo non identificabile dell’Africa, come se nulla fosse successo, come se fosse ancora in gioco. E dice: «Rendiamo il nostro paese ancora più grande», un manifesto di cui a posteriori si scoprirà l'impotenza.
La premonizione del precipizio mette in primo piano un personaggio secondario, Sergei Surovikin, rimosso dal comando dell'aeronautica, non si vedeva in pubblico dal giorno del tentato golpe, probabilmente aveva una tessera Wagner in tasca.
L’aeronautica chiama per assonanza il cielo. Il gran finale deve essere spettacolare. Pomeriggio di un giorno soleggiato, assenza di nuvole, obiettivi puntati in aria per riprendere il jet dall'ala spezzata che si avvita su se stesso in una nuvola di fumo prima di schiantarsi al suolo. Così muore un malvagio. Titoli di coda, non c'è bisogno di una chiosa tanto è facile la lettura. Chi osa sfidare lo zar non ha scampo, è una lepre che corre finché vuole il cacciatore.
Lo sappia chi si fosse messo in testa l'idea malsana di riprovarci.
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