Non era necessario e quindi è un messaggio politico. Questo martedì i negoziatori hanno segnalato la chiusura di un accordo sulle nomine per i vertici dell’Ue senza attendere lo svolgimento del Consiglio europeo, che si tiene giovedì e venerdì. L’imminente vertice dei capi di stato e di governo resta comunque la sede per una decisione ufficiale sui cosiddetti top jobs. Ma popolari, socialisti e liberali arriveranno all’appuntamento con un pacchetto già blindato – il trio già tanto vociferato, cioè Ursula von der Leyen, António Costa e Kaja Kallas – e soprattutto hanno ritenuto di farlo sapere, visto che dall’interno della camera negoziale «fonti diplomatiche» hanno confermato la notizia di un accordo raggiunto. La mossa rappresenta uno smacco per la premier italiana, e la portata dello smacco può essere soppesata dal fatto che sul tema è intervenuto Raffaele Fitto, che in tutto il governo è il più cauto e parco in fatto di interviste, e che nonostante ciò – da papabile commissario qual è – si è assunto l’onere di dichiarare: «Al prossimo vertice l’Italia intende esercitare un ruolo di primo piano». E ancora: «Quello delle nomine non è l’unico tema rilevante dell’agenda del Consiglio». Come a rassicurare che l’Italia di Meloni non è fuori dai giochi. Eppure è proprio questo che vogliono mandare a dire i negoziatori, con la soffiata sull’accordo di questo martedì: les jeux sont faits.

Nomi e tempi del negoziato

Il pacchetto è lo stesso già discusso il 17 giugno nel summit informale: Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea per un secondo mandato, l’ex premier portoghese António Costa per la presidenza del Consiglio europeo, la premier estone Kaja Kallas come alto rappresentante Ue. In ordine di peso dei gruppi, quindi: una popolare, un socialista, una liberale. Anche se non viene citata nel pacchetto per rispettare l’autonomia dell’Europarlamento, la riconferma della attuale presidente dell’Europarlamento, la popolare Roberta Metsola, viene data per sottintesa in questo accordo. I negoziatori che lo hanno apparecchiato ad alto livello sono i capi di stato e di governo individuati dalle tre famiglie politiche in questione: per il Ppe i premier polacco e greco, Donald Tusk e Kyriakos Mītsotakīs; per i socialisti il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il premier spagnolo Pedro Sánchez, per i liberali il presidente francese Emmanuel Macron e il premier olandese uscente Mark Rutte, che ha da poco ottenuto la nomina di segretario generale della Nato.

La triade von der Leyen – Costa – Kallas era già in circolazione al summit informale tra leader che si è svolto il 17 giugno, in chiusura del quale non era stato comunicato un accordo per questioni sia formali che di dinamiche politiche. Ovviamente soltanto in un Consiglio europeo ufficiale – come quello che comincia giovedì – può essere ufficializzato un pacchetto di nomi, e questo è l’aspetto formale. Ma come aveva detto Tusk il 17 pomeriggio, dal summit informale ci si aspettava pur sempre «una decisione, anche se non quella finale». Perché quindi una settimana fa si era ritenuto di prendere altro tempo? Anzitutto, come aveva fatto intendere lo stesso presidente del Consiglio europeo Charles Michel a fine summit, era stata considerata la necessità di «coinvolgere il più possibile tutti i leader nelle decisioni» per «proteggere l’unità». Il pacchetto andrà comunque approvato da una maggioranza qualificata in Consiglio, dunque non soltanto da abbastanza leader, ma che rappresentino la congrua quota di popolazione.

Il margine di Meloni

In uno scenario di compattezza dei capi di stato e di governo delle tre famiglie politiche popolare, socialista e liberale, lo scenario di una minoranza di leader in grado di bloccare l’accordo appare non plausibile. Sia lunedì da palazzo Chigi, che il giorno dopo via social, Viktor Orbán ha strepitato che «l’accordo tra Popolari, sinistra e liberali va contro le basi dell’Ue, che dovrebbe rappresentare tutti gli stati membri»; ma Orbán sa già che un no dell’Ungheria assieme a qualche altro sodale come Robert Fico non basterebbe a fermare tutto. Ed evidentemente lo sa bene anche Meloni, che non intende sporcarsi la veste «pragmatica» che si è costruita prendendo Orbán nei Conservatori o isolandosi appresso a lui.

Tutti gli elementi indicano che la finestra di opportunità di Meloni sia occorsa tra il 17 giugno e questo martedì. Quel che resta sarà un’esibizione apparente di forza: il «paese fondatore» che «incide sull’agenda», per citare Fitto. È in quella finestra che Meloni ha lavorato sulle deleghe per il proprio commissario, con Antonio Tajani – suo tramite col Ppe – che parlava di «una vicepresidenza forte» (ma quel che conta in Ue è la rilevanza del portafoglio). Oltre alla ragione formale, c’è una ragione politica per cui l’esito del summit del 17 era stato zoppo: su ciò aveva influito l’atteggiamento al rialzo del Ppe. I socialisti avevano fretta di chiudere – come esplicitato da Scholz – ma dai Popolari erano arrivate richieste irricevibili come l’ipotesi di alternanza alla guida del Consiglio. Il leader del Ppe Manfred Weber è il principale sponsor di Meloni all’interno della maggioranza tradizionale e le ha creato margine finché ha potuto, o finché gli è servito per rafforzare la posizione del Ppe stesso. Ma poi questo martedì, anzitutto da Berlino, le porte per Roma si sono chiuse. Pure Friedrich Merz della Cdu ha confermato l’intesa raggiunta. «Del resto con Tusk come negoziatore del Ppe, un coinvolgimento di Ecr in maggioranza non sarebbe stato concepibile»: così la vicepresidente dell’Europarlamento Katarina Barley, che era capolista alle europee per l’Spd di Scholz, spiega a Domani lo sblocco dell’accordo.

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