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Le discussioni sul nuovo Patto di stabilità e crescita europeo riguardano le regole di contenimento del debito pubblico e la flessibilità delle stesse.
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La finalità originaria del Patto era proteggere la politica monetaria comune, ma durante la pandemia è stato sospeso. Ora si cerca di ripristinare i vincoli per i governi e rafforzare l'indipendenza della Banca Centrale Europea.
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Per rendere efficace il nuovo Patto, potrebbe essere necessario un ampliamento del bilancio comunitario, in modo da promuovere una crescita sostenibile e produrre beni pubblici europei.
Passano le settimane e si avvicina la decisione del Consiglio europeo sul nuovo Patto di stabilità e crescita. Il nuovo Patto deve sostituire quello sospeso nel 2020, in seguito alle travolgenti necessità di spesa per affrontare la pandemia. Le discussioni tecniche e politiche per il suo disegno paiono non aver ancora imboccato il rettilineo di arrivo.
Le divergenze principali sono forse fra chi vuole una formula di contenimento dei debiti pubblici uguale per tutti i paesi e quelli che preferiscono regole più adattabili alle condizioni e ai problemi dei singoli paesi, come quelle proposte finora dalla Commissione. In generale, si può dire che le regole più adattabili sono anche più complesse e implicano più trattative “politiche” fra Bruxelles e le capitali degli stati membri.
Secondo alcuni, implicano anche un’eccessiva “invadenza” comunitaria delle autonomie macroeconomiche nazionali. Grosso modo, i paesi più austeri e rigorosi nel pretendere disciplina dei bilanci – come la Germania – sono a favore di regole uguali per tutti mentre gli altri – e la Commissione – preferiscono regole diversificate e flessibili.
L’Italia è fra i secondi. Fra le altre questioni sul tavolo ci sono anche i modi per far rispettare il Patto, la cui efficacia disciplinare è sempre stata piuttosto debole.
Lo scopo originario del Patto
La trattativa potrebbe avere esito diverso dalle proposte finora avanzate. Non pare nemmeno impossibile, anche se improbabile, un prolungamento della sospensione del Patto. Più che entrare nei dettagli di una discussione ancora poco trasparente, conviene riflettere sulle finalità delle regole di finanza pubblica europee. Il Patto è nato nel 1997 insieme all’ultima tappa della nascita dell’euro, e come sua conseguenza. Per due ragioni.
Con la quantità di euro fissata dalla Bce per mantener stabili i prezzi, se la finanza pubblica di un paese assorbe troppi euro dai mercati, alza il costo del finanziamento per tutti. Per evitare litigi, i paesi devono disciplinarsi insieme. Inoltre c’è il problema del “ricatto”: se un Paese si indebita in modo insostenibile ricatta la Bce che, per evitare una crisi finanziaria di tutta l’eurozona (soprattutto se fallisce un Paese grande), è indotta a salvarlo, creando più moneta di quanta dovrebbe per controllare l’inflazione.
Lo scopo originario del Patto è dunque la coerenza delle politiche di bilancio nazionali con le finalità della nuova politica monetaria comune. Paradossalmente, il senso del Patto sulle politiche di bilancio riguarda soprattutto la politica monetaria, l’indipendenza della Bce. Questo scopo deve rimanere. E riguarda i deficit e i debiti pubblici presi come aggregato, indipendentemente dalla loro composizione. Nel breve periodo, se è troppo è troppo, non importa che sia debito buono o cattivo.
Ma perché abbia senso questo scopo originario del Patto occorre che davvero la Bce voglia e possa controllare la moneta allo scopo di controllare l’inflazione e la stabilità finanziaria. Altrimenti non ha senso il vincolo ai bilanci messo per consentirle di rispettare i suoi obiettivi.
Il Patto è stato sospeso quando l’emergenza pandemica ha costretto anche la politica monetaria a offrire liquidità senza limiti. Ora che la pandemia è finita ed è arrivata l’inflazione, occorre ripristinare i vincoli per i governi e rafforzare l’indipendenza della Bce nel badare all’inflazione. Nel mio libro Oltre le Colonne d’Ercole (Egea, 2023) suggerisco che la Bce sia dia due regole: una per evitare manovre troppo brusche dei tassi e una per limitare entità e tempi del Quantitative easing.
Debito buono e debito cattivo
Una delle ragioni per cui il Patto era poco rispettato negli anni precedenti la pandemia era proprio il Qe, col quale la Bce voleva stimolare la crescita – che non è il suo compito primario – forse sottovalutando il pericolo che l’eccesso di liquidità e, insieme, i grandi disavanzi pubblici che finanziava, alimentassero prima o poi l’inflazione.
Mentre il Patto funzionava malino, lungo tutta la sua vita son andate spuntando, prima del tutto informalmente, poi in modo sempre più ufficiale, altre finalità del Patto, diverse dall’originaria protezione della politica monetaria unica. Innanzitutto, quella di incentivare, nella gestione nazionale dei bilanci, le spese più opportune per aiutare la crescita sostenibile.
Questo si può farlo; anzi, si deve farlo. Si tratta di distinguere i debiti buoni dai debiti cattivi, come diceva Mario Draghi, o i debiti per investimenti da quelli per spese correnti, come diceva – e continua a dire, credo con crescente consenso – Mario Monti. Si deve farlo perché, sia nel prevenire gli eccessi di deficit e di debito, che nel correggere gli eccessi che avvengono nonostante il Patto, esso deve in qualche modo privilegiare le spese più produttive, dato che l’entità dei deficit e dei debiti si misura rapportandoli al Pil.
Negli anni in cui l’Ue e la Bce hanno dovuto far fronte a gravi e diverse crisi, fino a quella pandemica e alla guerra, le finalità potenziali del Patto si sono ancor più allargate o, almeno, si vorrebbero allargare, anche con la riforma in discussione.
L’idea è quella di incentivare i paesi a fare non solo politiche di bilancio ma anche riforme strutturali, che li aiutino, soprattutto nel più lungo periodo, a crescere meglio e di più, a far convergere la crescita di tutti i paesi membri migliorando il mercato unico e la solidità economica complessiva dell’Unione. Molto di più che l’originaria, semplice preoccupazione di aiutare la Bce a garantire la stabilità dei prezzi mettendo vincoli semplici ai bilanci pubblici.
Dopodiché, soprattutto con la pandemia e l’intersecarsi delle finanze pubbliche nazionali con i piani di ripresa e resilienza del NextGenEU, le ambizioni di un nuovo Patto sono ancor più cresciute.
Si è sviluppata l’idea di far sì che i paesi trattino con Bruxelles l’insieme della loro strategia nazionale di sviluppo, affiancando ai vincoli su spese e debito pubblici analisi e impegni sulla qualità, sulle strategie e i tempi delle politiche economiche più in generale. Sembra sfumare lo scopo originale di proteggere col Patto la politica monetaria nel suo sforzo di evitare l’inflazione.
Il Patto e il bilancio comunitario
Nella riforma del Patto proposta dalla Commissione, la finalità qualitativa e trasformativa è molto presente. Secondo alcuni, troppo. Oltretutto, non sarebbe facile implementare, disciplinare, sanzionare un Patto complicato da troppi riferimenti a riforme e piani di sviluppo.
Infatti, a differenza del Pnrr, che entra sì nei dettagli di riforme e qualità delle spese ma lo fa in cambio di grandi prestiti e finanziamenti comunitari, che vengono sospesi se i Paesi mancano agli impegni, il bastone del Patto non avrebbe la carota dei soldi trattenuti agli indisciplinati.
È difficile decidere come limitare questo approccio ampio al Patto, perché esso sia opportuno e accettabile da tutti i paesi membri. Non va comunque persa di vista la finalità originaria di non mettere in difficoltà la Bce nel regolare la liquidità per mantenere la stabilità del livello dei prezzi.
Aggiungo solo un’altra osservazione. Non mi sembra ci siano buone soluzioni per il Patto che non implichino un sostanziale ampliamento del bilancio comunitario, cioè delle spese e delle entrate che fan capo direttamente a Bruxelles, anche con un trasferimento di spese pubbliche dai bilanci nazionali.
Si devono produrre comunitariamente i cosiddetti beni pubblici europei: dalla difesa al clima, da specifiche politiche industriali ad alcuni programmi di ricerca, dalle infrastrutture transfrontaliere alla tutela dei confini e alla gestione delle migrazioni, e così via, scegliendole a una a una con cura e ottenendo le necessarie deleghe dai paesi.
Ai quali rimarrebbero bilanci ridotti ma più specifici e rispondenti sussidiariamente ai loro cittadini, più facili da controllare da Patto semplice e comunque con saldi e debiti strutturalmente meno ampi e meno pericolosi per la stabilità finanziaria dell’eurozona. Il bilancio comunitario sarebbe invece sotto il controllo diretto, senza che occorrano Patti, del Parlamento, della Commissione e del Consiglio.
Se non si amplia il bilancio comunitario, anche pragmaticamente e senza variare subito i trattati, sarà difficile trovar consenso su un Patto di stabilità che sia davvero anche di crescita. Questa dovrebbe essere la posizione diplomatica dell’Italia, invece di perdersi in strani e controproducenti tentativi di impresentabili scambi di favori, del tipo: noi ratifichiamo il Mes e voi fate un Patto più flessibile.
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