La rielezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea non attesta solo la sua sopravvivenza politica e la resurrezione subitanea dei Verdi europei, che possono rivendicare di essere stati indispensabili a rieleggerla. Il dato politico che arriva da Strasburgo è che i Greens hanno potuto riempire il vuoto che Giorgia Meloni ha lasciato, anche se i Fratelli d’Italia vanno raccontando che è von der Leyen a essersi consegnata ai Verdi, motivando così il loro voto contrario, dichiarato solo a cosa fatta.

La definizione che la premier si era autoassegnata – l’underdog come «sfavorito che per affermarsi stravolge i pronostici» – vista dall’Ue appare ribaltata: in questa elezione sono stati i Verdi gli sfavoriti che hanno finito per dettare gli esiti. La destra estrema che doveva «cambiare l’Europa dopo l’Italia» questo giovedì ha finito paradossalmente per blindare, e semmai sbilanciare a sinistra, la tradizionale maggioranza centrista.

Numeri e opportunità perse

A von der Leyen sarebbero bastati 360 voti; ne ha avuti 401, cioè la somma degli eletti delle tre forze dalle quali è partita per garantirsi consenso per la rielezione: popolari, socialisti e liberali. Ma sappiamo che anche i Verdi la hanno votata, e sono 53: vuol dire che nei tre gruppi portanti i franchi tiratori ci sono stati, e che senza la cinquantina verde von der Leyen non sarebbe stata riconfermata.

Così il gruppo che era uscito dimagrito dalle europee ha potuto avanzare l’idea di un «blocco a quattro», mentre Bas Eickhout, il capogruppo dei Verdi, all’ora di pranzo lanciava pure l’affondo a Meloni: «Ma vi pare credibile? Il voto è in corso e ancora non ha dichiarato cosa farà, se aspetta i risultati visto il voto segreto potrà dare qualsiasi versione».

Solo poco prima dell’esito, è stata fatta filtrare non dal partito italiano ma dal gruppo Ecr la soffiata che «forse» la delegazione italiana avesse votato contro. Una gestione inusuale per una grande delegazione che è al governo in un paese fondatore. «Non volevamo influenzare gli altri», è stata pochi minuti dopo la versione ufficiale dei due meloniani, il capodelegazione Carlo Fidanza e il capogruppo Ecr Nicola Procaccini. Peccato che la capacità di influenzare sia una dote, in politica.

Invece FdI prima non ha saputo condizionare le dinamiche e poi, resasi conto di non poter rivendicare un ruolo cruciale, ha preferito porsi contraria. Non si è trattato di una scelta obbligata. Socialisti e liberali non avrebbero accettato una integrazione esplicita di FdI nella piattaforma a tre coi popolari, ma Meloni avrebbe potuto osare, avanzando comunque il suo sostegno alla presidente, e imporre così un proprio ruolo.

C’è di più: fino almeno all’inizio di questa settimana l’ala di Manfred Weber, che guida il Ppe e che lo aveva dirottato dal 2021 verso una cooperazione tattica con Meloni, sperava che la premier lo facesse per non dover avere debiti eccessivi coi Verdi. Se Fratelli d’Italia non vuole blindare una cooperazione della maggioranza a tre coi Green le conviene agganciarsi, era il ragionamento.

In tutta la prima fase negoziale Weber è andato dicendo alla stampa tedesca che Meloni era preferibile ai verdi. Il suo gioco era chiaro: usare i Fratelli come sponda per acquisire peso negoziale e possibilmente slittare a piacimento la legislatura a destra. Questa era anche sempre stata, dal 2021, la strategia dei meloniani: far valere un ruolo di intermediazione tra Ppe e destre estreme.

Ma questo giovedì di tutto ciò non si è visto nulla: Meloni si è per scelta eclissata. A posteriori i suoi hanno voluto leggere il discorso di von der Leyen come una resa ai Verdi, ma le linee programmatiche della presidente erano concepite per contemplare ogni opzione: gli appigli, a volerli vedere, c’erano eccome, dai riferimenti alle frontiere dure alla traduzione del green deal in “Clean Industrial Deal” con al centro le imprese.

La dinamica e gli scenari

Tanto Meloni si è tagliata fuori quanto i Verdi hanno saputo infilarsi, anche letteralmente: pare che la co-capogruppo tedesca Terry Reintke sia comparsa anche nelle interlocuzioni con gli altri tre gruppi.

Anche se pochi lo ricordano, nell’accordo della coalizione semaforo tedesca del 2021 sarebbe spettata ai verdi la scelta del commissario Ue, e poiché la Germania non avrà un commissario ma la presidente, il governo tedesco a livello informale ha fatto valere la propria abdicazione a favore della cristianodemocratica von der Leyen, ottenendo che lei ai Verdi non chiudesse la porta in faccia. Ai socialisti stessi è utile che la sponda si trovi dal lato amico e non da quello di Meloni.

Nel medio periodo è da vedere se le uscite dei Greens su un «blocco dei quattro partiti» reggeranno alle spinte a destra nel Ppe, che infatti ha chiesto loro di dichiarare solo questo giovedì il voto a favore per non alienarsi pezzi a destra.

I Popolari per ora non hanno messo la faccia su un accordo di coalizione, rendendo gli equilibri futuri piuttosto volatili; anche per questo Procaccini può dirsi tuttora fiducioso che in seguito FdI giocherà un ruolo – come si dice, «sui dossier» – anche se non ha contribuito all’elezione della presidenza. Al momento però le mani sono vuote: se è vero che un appoggio del governo era vincolato a un portafoglio di peso, allora dev’essersi rivelato leggerissimo.

Nei piani di von der Leyen sono previsti un vicepresidente alla Semplificazione e un commissario al Mediterraneo, ma questo giovedì pomeriggio dalle parti di FdI fuori microfono si sono lasciati scappare che prima del voto Meloni non ha avuto garanzie neppure sul commissario. Von der Leyen avrebbe ufficializzato questo punto a elezione avvenuta, ma Meloni non ha aspettato: i suoi hanno votato contro.

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