Tutti i punti fissati dalla Consulta che ha dichiarato parzialmente incostituzionale la riforma dell’autonomia differenziata. Che cosa può succedere ora
La vicenda dell’autonomia differenziata ha aspetti surreali che la Corte costituzionale si incarica di cassare. Tutto è iniziato con la sottoscrizione il 28 febbraio 2018 di tre «accordi preliminari in merito all’intesa», di contenuto pressoché identico, siglati dai presidenti di Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto e dal sottosegretario per gli Affari regionali e le autonomie del governo Gentiloni.
Le richieste erano basate sulla disposizione dell’art. 116 della Costituzione, che prevede la possibilità di riconoscere alle regioni a statuto ordinario «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti» ventitré materie. Un anno dopo (governo Conte I) sono stati sottoscritti tre «testi concordati» più dettagliati.
Aspetti surreali
Nei documenti del 2018 e del 2019 sono presenti gli aspetti surreali poi sopravvissuti fino all’approvazione della legge Calderoli. Il primo è l’idea di seguire il procedimento «ormai consolidato» per le «intese tra lo stato e le confessioni religiose».
Come se le regioni fossero entità estranee alla Repubblica. Le implicazioni erano importanti: trattative bilaterali tra stato e singola regione, senza nessun coinvolgimento del parlamento, che avrebbe solo potuto esprimere un parere non vincolante sul testo concordato e poi approvare o respingere una legge non emendabile.
Il secondo aspetto è l’oggetto delle intese (le funzioni trasferibili): non elementi limitati e circoscritti delle politiche pubbliche, per i quali l’autonomia sarebbe stata vantaggiosa per i cittadini (come, per fare un esempio, potrebbe essere la competenza sul trasporto marittimo per la Sardegna) ma intere materie, anzi tutte le materie possibili. Senza curarsi di fornire nessuna motivazione particolare. Unica giustificazione è l’affermazione apodittica (in tutte e tre i «testi concordati») secondo cui «l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia corrisponde a specificità proprie della regione e immediatamente funzionali alla sua crescita e al suo sviluppo».
Il terzo aspetto riguarda le risorse finanziarie da trasferire: dovevano essere commisurate a fabbisogni di spesa determinati anche in relazione al gettito dei tributi erariali maturati nel territorio regionale. Insomma risorse più che proporzionali alle regioni più ricche. Quest’ultimo è con ogni probabilità il movente principali delle iniziative regionali: trattenere una quota maggiore del gettito dei tributi statali ovvero ridurre i cosiddetti residui fiscali territoriali. Ovvero, la ragione sociale della Lega.
Peccato che i residui fiscali territoriali in Italia non siano il frutto di politiche pubbliche dirette a favorire particolari aree del paese. Ma traggano origine semplicemente da politiche nazionali che non tengono conto della residenza di chi paga le imposte e chi riceve i benefici della spesa pubblica.
Sono, insomma, la conseguenza necessaria dell’applicazione del principio di equità orizzontale («trattamento uguale per gli uguali») per cui, per citare il premio Nobel 1986 James Buchanan, tra i fondatori della teoria liberale del federalismo fiscale, «i cittadini degli stati a basso reddito all’interno di un’economia nazionale possiedono il diritto di essere posti in una posizione di parità fiscale con i loro uguali in altri stati».
La decisione della Corte
La Corte costituzionale tocca tutti questi temi.
1. L’iniziativa legislativa relativa alla legge di differenziazione non è riservata unicamente al governo ed è comunque soggetta al potere di emendamento del parlamento (salta l’ardito parallelismo tra Regioni e confessioni).
2. Non è accettabile che il trasferimento di competenze riguardi intere materie, bensì solo specifiche funzioni legislative e amministrative.
3. E, soprattutto, la devoluzione di queste funzioni deve essere giustificata.
4. La decisione sostanziale sui Lep non può essere prerogativa esclusiva del governo ma deve coinvolgere il parlamento
5. Vanno chiarite le modalità di adeguamento delle aliquote di compartecipazione al gettito dei tributi erariali.
6. Per le regioni destinatarie della devoluzione dovrà essere doveroso e non facoltativo concorrere agli obiettivi di finanza pubblica. Da notare come gli ultimi tre punti abbiano riflessi sulla questione fondamentale della perequazione (dopo venticinque anni ancora irrisolta).
Vedremo l’evoluzione nelle prossime settimane. Il ministro Roberto Calderoli sembra intenzionato, intanto, a proseguire le trattative con le regioni (Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto) che lo scorso luglio hanno avanzato richieste sulle materie non Lep. Tutte richiedono di regionalizzare la Protezione civile (senza spiegare perché ciò, nonostante il buon senso suggerisca altro, sia preferibile all’assetto unitario attuale). Ma la Consulta ci dice che anche se il legislatore qualifica una materia come non Lep i relativi trasferimenti non potranno riguardare funzioni riferibili a diritti civili e sociali. Chissà se questi includono il diritto a ricevere soccorsi adeguati in caso di calamità.
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