Sul suo profilo social un candidato alle prossime elezioni regionali in Campania ha definito i partigiani dei veri e propri “assassini” e ha inneggiato a presunti meriti del regime fascista dopo essersi dichiarato sostenitore di “Dio, patria e famiglia”. Si tratta di un ex coordinatore della Lega di Matteo Salvini, nonché ex militante del Msi. Leggendo queste dichiarazioni, sono andato a curiosare tra le liste del centrodestra per vedere chi aveva avuto l’ardire di candidare un personaggio del genere. E invece ho scoperto che si tratta di un candidato a sostegno di Vincenzo De Luca nella lista “Lega per l’Italia-Partito repubblicano, una delle quindici liste (record assoluto in Italia in una elezione regionale) a sostegno del presidente uscente della Regione. Naturalmente, l’ex leghista e missino sostiene che De Luca è a pieno titolo “un uomo di destra” e di sentirsi perciò in assoluta coerenza con i suoi “valori” nel sostenerlo.

Un altro candidato che ha fatto parlare di sé è un certo Ciro Attanasio, passato anche lui in un battibaleno dal campo della Lega a quello del centrosinistra (dopo essere stato eletto consigliere comunale con Fratelli d’Italia) scordandosi però di cancellare dal suo santino elettorale il nome di Stefano Caldoro, a sostegno del quale si era schierato prima di subire la folgorazione deluchiana. E questo personaggio ha usato senza imbarazzi in un suo spot le parole di Genny Savastano, il boss  della serie televisiva Gomorra: “Mo ce ripigliammo tutt’ chelle che è ‘o nuost (adesso ci riprendiamo tutto ciò che è nostro): sanità, rifiuti, industria, turismo, lavoro, ma soprattutto dignità e rispetto” con un tono perentorio-intimidatorio che gli fa dimenticare un piccolo particolare: la sanità e i rifiuti ( come altri settori) in Campania sono già appannaggio di De Luca e del suo schieramento, che ne hanno fatto da tempo una “cosa loro”.

Un altro candidato ha confessato: “Sono massone da 50 anni, non voglio nascondermi, De Luca lo sa e mi stima”. Non credo che sia la prima volta in Italia che un massone si presenti ad una elezione, ma è la prima volta che lo rivendica apertamente e con orgoglio, senza che ci sia una reazione del Pd locale e nazionale.

Il nomadismo del potere

Passare dalla destra al centrosinistra è stato  ed è in Campania più facile di quanto si potesse immaginare, più frequente e più sfacciato di qualsiasi altra regione in cui si vota. Il termine “trasformismo” è insufficiente per descrivere quanto è accaduto. Si deve parlare di  “nomadismo di potere”. Il più esteso trasferimento di massa da un campo politico all’altro mai verificatosi nella storia elettorale italiana dal secondo dopoguerra. Ed è sorprendente che tutto ciò passi senza suscitare grandi reazioni e nel silenzio totale del segretario del Pd Nicola Zingaretti e dei suoi.

Con De Luca nessuno è più imbarazzato per il proprio passato: né i fascisti, né i leghisti, né i massoni né tantomeno quelli che precedentemente hanno sostenuto uomini in legame stretto con clan di camorra. Nessuno di questi ha sentito il bisogno, candidandosi, di prendere le distanze dai convincimenti del passato, o dalle relazioni politiche ed elettorali che ne avevano contraddistinto la carriera.

Con De Luca si riceve una specie di “amnistia politica permanente”, l’adesione alle sue liste è “salvifica”; egli è il redentore di tutti quelli che avevano preso strade sbagliate, ma con una differenza: non debbono rinnegare le appartenenze precedenti: basta schierarsi con lui che tutto il passato viene rivalutato come semplice percorso per arrivare alla verità, cioè alla sua corte.

Una candidata, moglie di un democristiano raccoglitore di tangenti nel periodo migliore di Antonio Gava, eletta nella scorsa legislatura con il centrodestra, indagata per voto di scambio, amica di Luigi Cesaro accusato di essere in rapporto con il clan Puca di S. Antimo, lei stessa segnalata per avere incontrato il figlio del capo clan per fini elettorali, ha dichiarato che De Luca è “l’albero della vita, né di destra né di sinistra” e che l’accettazione della sua candidatura da parte del presidente della Regione vale come un’assoluzione dalle accuse!

La politica omeopatica

Nel corso di questi anni gli studiosi dei sistemi politici si sono sbizzarriti a ricercare formule per rappresentare le varie fasi della complessa transizione dai partiti di massa della prima repubblica a quelli di oggi: partito-personale, partito-pigliatutto, partito notabilare, partito a vocazione maggioritaria, partito-nazione, partito-arca di Noè, partito-famiglia, partito-azienda, etc. etc.

L’idea di politica e di partito che De Luca ha plasticamente mostrato attraverso la composizione delle sue liste non rientra in nessuna di queste semplificazioni; per lui bisogna inventarsi formulazioni totalmente inedite.

L’ex sindaco di Salerno ha inventato “il partito-sgabello” e “le coalizioni -bazar”: un partito su cui ti appoggi per sostenere le tue ambizioni senza interferenze centrali e coalizioni dove trovi di tutto e sperimenti di tutto, dove la contrattazione al più basso prezzo è la regola, e dove puoi vendere e comprare quello che vuoi. Il rapporto tra politica e mercato, inteso come luogo di scambi, non trova oggi in Italia nessun  luogo più emblematico della “sua” Campania.

De Luca è in effetti l’inventore della “politica omeopatica”: cioè la strategia per combattere i mali alleandosi con coloro che li rappresentano. De Luca per anni ha sostenuto di voler contrastare i  padrini e i notabili in politica, scalando le tappe del potere in contrasto con i leader storici del suo e degli altri partiti e si è poi alleato con essi.

Nella sua prima campagna elettorale per la presidenza della Regione nel 2010 accusò con toni duri Caldoro di essersi alleato con il peggio della politica campana (identificati appunto in Ciriaco De Mita e Clemente Mastella), e oggi che sono suoi alleati (assieme a Paolo Cirino Pomicino) li definisce “politici di spessore”.

In ogni apparizione televisiva si scaglia contro la “politica politicante” ma si ritrova con tutti coloro che hanno solcato le scene politiche per più di 50 anni. Non perde occasione di parlare di radicale rinnovamento per offrire spazio ai giovani, e si ritrova ad avere consolidato una vera gerontocrazia (calcolando l’età di De Luca, De Mita, Mastella e Pomicino si arriva a ben 317 anni!).

Ad ogni piè sospinto parla del valore della meritocrazia e ha eletto un figlio deputato (e l’altro lo sta preparando per sindaco di Salerno) e nelle varie liste ospita decine di figli, nipoti, fratelli, cognati, di esponenti politici che non possono candidarsi per problemi con la giustizia o per altri motivi. La sua può essere definita come la più estesa coalizione familistica della storia politica italiana.

Parla, poi, insistentemente di coerenza ed ospita nelle sue liste quasi cento candidati che vengono dal centrodestra. Precisa spesso che lui è in guerra con la camorra e chi la sostiene, e si allea nelle provincie più “esposte” con uomini di confine di quel mondo. Si ritiene un antifascista e ospita degli inossidabili seguaci di Benito Mussolini. De Luca è convinto, cioè, che per combattere certi fenomeni bisogna allearsi con coloro che li hanno causati: è una teoria sicuramente molto originale e inedita nella storia della sinistra italiana.

Gian Mattia D'Alberto / LaPresse

La cosa più simile a Salvini

Qual è, dunque, la valenza nazionale delle prossime elezioni regionali in Campania? Sicuramente il tema principale non è il pericolo “leghista” che ha caratterizzato lo scontro a gennaio in Emilia e oggi lo caratterizza in Toscana e Marche. L’onda lunga di Salvini nel Sud sembra essersi arrestata.

D’altra parte, se avesse scelto questo filone di battaglia il centrosinistra sarebbe andato in grande difficoltà, in quanto De Luca è il candidato che più si avvicina per temi trattati, per modalità di espressione a quelli tipici della Lega. Da sindaco di Salerno aveva fatto della lotta all’immigrazione e della sicurezza urbana i suoi temi identitari. Il coordinamento degli immigrati lo accusò di xenofobia, paragonandolo al leghista Borghezio. Si era messo alla testa di una squadra di vigili, una ronda per cacciare venditori ambulanti immigrati. Nella sua crociata contro gli extracomunitari, aveva dichiarato: “Li prenderemo a calci nei denti e li butteremo a mare”. E dopo aver smontato un campo rom, così si era espresso: “Io me ne frego di dove quella gente va a finire. A Firenze li integrano? Io li prendo a calci nei denti, e il cielo stellato ce lo godiamo noi”. E’ stato lui il portabandiera degli “sceriffi di sinistra”, di quella nuova genia di amministratori che rinunciavano totalmente ad una idea della sicurezza alternativa alla destra, che anzi ne copiavano l’agenda politica.

Ma il tema centrale non sarà neanche la contrapposizione frontale ai valori del centrodestra. De Luca ha dichiarato più volte che “la destra è il mio elettorato naturale. Sono io a rappresentare la destra europea”. Non si vuole banalizzare l’analisi parlando di uno scontro in Campania tra due destre, eppure è difficile racchiudere il tutto nella contrapposizione classica destra-sinistra, conservatori e progressisti perché è molto complicato definire il confine tra l’uno e l’altro schieramento.

Insomma, qual è la partita in gioco nelle elezioni della regione più rappresentativa e popolata si del Sud? La prima: siamo di fronte al primo leader di sinistra che cavalca il tema della paura degli elettori al posto di provare a governarla. De Luca è il primo a sinistra a investire sulla paura come molla del consenso. Un qualcosa che modifica radicalmente il dna della sinistra e dei progressisti italiani.  Il populismo di destra e quello di sinistra in lui trovano un’inedita sintesi, molto di più che in Michele Emiliano in Puglia a cui il partito di Renzi ha negato irresponsabilmente il sostegno.

Miracolato dal Covid

De Luca prima della pandemia era un uomo politico finito. I sondaggi a gennaio lo davano 10 punti dietro a Caldoro. Certo, un evento imprevisto, sconvolgente, può far cambiare radicalmente opinione su di un amministratore che ha dimostrato qualità nascoste che prima dell’emergenza non si erano manifestate. Nel caso di De Luca niente di tutto ciò è avvenuto, il suo è stato un impegno quasi esclusivamente verbale, fatto di dichiarazioni, di prediche televisive, di sfottò e di dileggio degli avversari.

La strategia comunicativa di De Luca si è basata su due cardini: indicare nel cittadino “strafottente” e non rispettoso delle regole la responsabilità dei contagi; scaricare sul governo centrale la responsabilità nel caso il contagio si fosse esteso portando migliaia di persone a premere su strutture inadeguate. Una strategia oppositiva/aggressiva che sta applicando anche in questi giorni in Campania: se aumentano i contagi è colpa del governo e dei cittadini irresponsabili, se diminuiscono è merito suo.

Ciò ha comportato una produzione di norme in Campania impressionante, solo al fine di dimostrare che qui si era più severi, per differenziarsi a tutti i costi dalle altre regioni e dal governo nazionale. Alla fine, De Luca si è vantato di aver impedito una carneficina. Agli atti non risulta assolutamente che con le sue decisioni abbia impedito un allargamento del contagio. Lo dimostra il fatto che l’andamento dell’infezione nelle altre regioni meridionali ha seguito un percorso similare, ottenendo lì dei risultati addirittura migliori.

De Luca è diventato famoso non per quello che ha impedito, ma per quello che ha commentato e per come lo ha commentato. Senza di lui la Campania avrebbe avuto gli stessi risultati, come è successo in Basilicata, Puglia, Sicilia, Calabria. A meno che non si ritenga che pandemie del genere si combattano con le battute e gli sberleffi. In realtà, se nessuna regione meridionale ha avuto un tasso di infezioni lontanamente paragonabile a quelli del nord, vuol dire semplicemente che ha funzionato la distanza geografica dai centri del contagio e soprattutto la decisione di chiudere a casa tutta la popolazione italiana, compresa quella meridionale meno colpita.

Per quanto riguarda il vantarsi dei tre ospedali anti-covid costruiti nel giro di pochissimo tempo e costati più di 18 milioni di euro, nessuno di essi ha svolto finora una qualche funzione, due non sono entrati in funzione neanche per un giorno né sono ancora collaudati. E l’appalto per tali costruzioni sono oggi oggetto di una indagine della magistratura napoletana.

De Luca esprime pienamente le nuove forme del rapporto centro-periferia nelle attuali condizioni del Pd, cioè le relazioni tra potentati locali e direzione centrale. Il sistema delle correnti, su cui si basa l’instabile equilibrio del Pd fin dalla sua fondazione, riesce tutto sommato a reggere a livello nazionale senza aver portato finora il partito al collasso (nonostante la recente scissione) mentre sta implodendo a livello locale. A questo livello è quasi impossibile contenere le ambizioni dei singoli dentro una condivisione generale di strategie, perché sono stati permessi e alimentati sistemi di potere autoreferenziali, delle vere e proprie satrapie senza nessun controllo e contrasto.

D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani, Franceschini, e in ultimo Renzi, hanno sostenuto in periferia chi poteva garantire loro sostegno nelle varie elezioni primarie, con voti e tessere, senza andare troppo per il sottile sulla provenienza del consenso.

LaPresse

Il clientelismo stalinista

La Campania rappresenta un caso emblematico delle nuove dinamiche tra potere centrale e locale in un partito basato sulle correnti, dove il sostegno che dalla periferia si rivolge al centro non è basato sulla condivisione di una strategia ma dal migliore posizionamento che si ottiene ai fini della propria carriera, schierandosi di volta in volta per l’uno o per l’altro dei leader nazionali. De Luca concepisce la politica come forza, come intrigo, come alleanze che continuamente si disfanno, usando permanentemente l’arma dell’offesa fisica agli avversari: è un clientelare stalinista, un impasto originale delle scorie tossiche della storia della Dc e del Pci.

E allora perché è sostenuto a spada tratta anche da Zingaretti? Per poter vincere almeno in una regione del Sud. Ma la vittoria di De Luca non sarà affatto la vittoria del Pd e lui la userà per scalare il potere arrivando allo scontro frontale proprio con Zingaretti.

Infine, il successo di De Luca è espressione anche di un altro cambiamento a livello nazionale: lo spostamento di attenzione mediatica e del potere politico e amministrativo verso il sistema regionale che la pandemia ha alimentato e in parte costretto a registrare. E’ indubbio che in questa crisi i rappresentanti delle Regioni hanno conosciuto un protagonismo che non ha paragoni con tutto il periodo precedente. E hanno portato avanti, in maniera aperta o sottotraccia, un tentativo di spostare l’asse delle competenze a loro favore.

In questi mesi si è giocata (e si gioca ancora) una partita di potere e tra i poteri dello Stato. Ho l’impressione che alla fine di questa tragedia il bisogno di un’autorità centrale dello Stato si rafforzerà ancora di più rispetto alla visione di uno Stato pluridecisionale, decentrato e in gran parte impotente. L’autonomia differenziata, e in genere ogni forma di contestazione/competizione con la potestà statale centralizzata, ha conosciuto in questa vicenda la sua più grande delegittimazione. Dalla prova del coronavirus il sistema regionale esce malconcio, senza aver minimamente mostrato di essere più efficiente dello Stato centrale.

 De Luca è uno di quei leader locali che hanno avuto in questa fase  maggiore visibilità senza dimostrare maggiori capacità. Ha criticato spesso il governo centrale, molto di più del presidente del Veneto Luca Zaia e di Attilio Fontana in Lombardia, ha sostenuto di aver più volte preceduto le decisioni dei ministri, ha creato scompiglio per decisioni che si contrapponevano a quelle nazionali, ha minacciato di chiudere confini senza avere competenza ad aprirli. E’ stato il caso più clamoroso di un politico che senza scrupoli ha sfruttato il momento storico che gli si presentava, giocando una sua partita nazionale in questo caos istituzionale e in questa resa del Pd ai satrapi locali.

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