L’indagine sulle presunte tangenti pagate dal Qatar a esponenti del parlamento europeo ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il tema della regolamentazione dei rapporti tra lobby e decisori pubblici.

Partiamo da un dato di fatto: l’azione posta in essere dai gruppi di pressione al fine di influenzare i processi decisionali è strettamente connessa alla natura democratica di uno stato.

Lobbying è democrazia

Un sistema democratico, per essere tale, necessita di un dialogo continuo e trasparente tra decisore pubblico e lobby consentendo, a queste ultime, di intervenire nel processo decisionale.

L’aspetto critico di tale relazione non risiede nella natura “negoziata” dell’atto conseguente al processo decisionale, ma nel modo in cui i vari interessi sono sintetizzati nella decisione finale.

È proprio in questo “modo” che si cela il rischio corruzione che, tuttavia, non dipende all’azione di lobbying di per sé ma dall’assenza di trasparenza che connota la maggior parte dei processi decisionali e dall’elevata probabilità che, a intervenire nel processo decisionale, non siano tutti coloro che ne hanno interesse ma solo i più potenti.

Bruxelles paradiso dei lobbisti

Per ovviare a tali fenomeni degenerativi servono norme puntuali. A Bruxelles queste regole ci sono e consentono oggi di conoscere come i lobbisti intervengono su parlamento, Commissione e Consiglio.

Secondo un accordo siglato tra le tre istituzioni ed entrato in vigore a giugno 2021, i lobbisti che intendano organizzare incontri o avere contatti con i decisori pubblici al fine di influenzare le politiche dell’Unione, sono tenuti a iscriversi a un registro pubblico e a rispettare numerose regole di trasparenza. Le medesime regole valgono per i decisori pubblici europei che incontrano i lobbisti iscritti.

La normativa ha però due loopholes, due scorciatoie: in primo luogo, gli obblighi di trasparenza non si applicano a chi rappresenta gli interessi di stati anche di paesi terzi, di partiti politici e di sindacati coinvolti nel dialogo sociale europeo.

In secondo luogo, agli ex parlamentari non si applicano le norme che vietano l’assunzione di incarichi in conflitto di interesse appena cessato il mandato (il così detto “revolving door”).  

Sono queste “scappatoie” normative ad avere alimentato – stando alle ricostruzioni giornalistiche – il terreno della corruzione nello scandalo emerso in questi giorni.

Il Far west italiano

La vicenda europea rappresenta un campanello d’allarme per il contesto italiano dove la relazione tra lobbista e decisore è avvolta da un velo impenetrabile e dove continuano a mancare, nonostante lo “scandalo” Renzi, norme volte a regolare il rapporto tra parlamentari in carica e stati esteri.

L’Italia è una delle poche democrazie al mondo a non avere una legge organica in materia; il legislatore è intervenuto solo in modalità difensiva, introducendo nel codice penale il reato di «traffico illecito di influenze» che punirebbe chiunque indebitamente si fa dare o promettere denaro per la propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale.

La norma, per come formulata, ha vizi di incostituzionalità ed è sostanzialmente inapplicabile, come ha evidenziato l’ufficio studi della corte di Cassazione precisando che, in assenza di una legge volta a definire i limiti leciti dell’influenza, è impossibile determinare i casi di influenza illecita. L’assurdità di tale disposizione è stata ricordata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio in una intervista al Corriere della sera.

Nella scorsa legislatura la Camera ha approvato un disegno di legge in materia, presentato da Francesco Silvestri (M5s), poi arenatosi in Senato sotto i colpi di migliaia di emendamenti.

Tuttavia, quel provvedimento nulla disponeva sul lobbying da parte di rappresentanti di stati esteri né fissava divieti di assumere incarichi da parte degli ex parlamentari (molti dei quali si improvvisano lobbisti) o da parte di parlamentari in carica nei confronti di stati esteri.

Lo scandalo europeo dovrebbe ora indurre il governo Meloni a colmare le “scappatoie” italiane. Le direzioni potrebbero essere due: da un lato imporre obblighi di trasparenza in capo ai decisori pubblici (il che non vuol dire compilare dei moduli assurdi come previsto inutilmente dal decreto legislativo n. 33 del 2013) e, dall’altro, disciplinare i diritti dei lobbisti in modo da fissare la cornice entro cui operare.

Al tempo stesso serve che il parlamento adotti un codice di condotta dei propri membri che vieti espressamente rapporti economici con stati esteri e loro rappresentanti. Il ministro Nordio ha dichiarato che è urgente agire. Speriamo sia di parola.

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