- Berlusconi si chiede se «non porta più vantaggi al paese» da palazzo Chigi. Bersani lo avvisa: chi lo lancia al Quirinale vuole solo andare al voto. Così il parlamento dice al premier di restare. Con le buone o le cattive.
- Berlusconi parla a nuora perché suocera intenda. E le suocere sono i rissosi alleati Matteo Salvini e Giorgia Meloni, tentati a fasi alterne di lanciare il nome di Draghi nell’urna per avvicinare il voto.
- In questi giorni in realtà salgono le quotazioni del senatore Pier Ferdinando Casini. Per lui lavora un altro senatore, Matteo Renzi, descritto dagli alleati in ossessiva ricerca della mossa da kingmaker.
«Draghi sarebbe certamente un ottimo presidente della Repubblica. Mi domando se il suo ruolo attuale, continuando nel tempo, non porterebbe più vantaggi al nostro paese». Per il secondo giorno consecutivo, stavolta dal vertice Ppe a Bruxelles, Silvio Berlusconi prova a raccogliere i cocci del centrodestra e a sedare la rivolta anti sovranista che si è accesa fra gli azzurri. Serve tempo. Quindi dà un “consiglio” al suo amico ex presidente della Bce: non c’è dubbio che sarebbe un prestigioso inquilino del Colle, dice nella sostanza, ma per ora è indispensabile che resti a palazzo Chigi.
Berlusconi parla a nuora perché suocera intenda. E le suocere sono i rissosi alleati Matteo Salvini e Giorgia Meloni, tentati a fasi alterne di lanciare il nome di Draghi nell’urna per avvicinare il voto. Ieri la suocera leghista, alla riunione dei parlamentari in un teatro romano, ha rassicurato: anche se il premier traslocasse al Colle non si voterebbe. Entrambe le suocere a loro volta gratificano l’ex cavaliere fingendo di credere alla favola della sua candidatura al Quirinale: «Se Berlusconi decidesse di scendere in campo come leader di un partito del centrodestra avrebbe tutto il nostro sostegno», lo vezzeggia Salvini. Ma non è una cosa seria. Lo stesso Berlusconi ci scherza su con i giornalisti.
Come lui anche altri seniores puntano a convincere Draghi a restare a palazzo Chigi. Lo fa Pier Luigi Bersani nella coda di un’intervista alla Stampa: «Occhio, attenzione a non combinare disastri. E comunque sia chiaro sin da oggi: se Salvini vuol fare cadere Draghi, vada in parlamento e lo sfiduci. Ma non pensi di usare le istituzioni per le sue pensate».
L’ex segretario del Pd nomina l’innominabile, lo spauracchio che i deputati e i senatori agitano nell’aria bisbigliando all’orecchio dei cronisti: l’ipotesi di un doppio gioco sulla candidatura di Draghi al Colle.
Bersani lo attribuisce al leader della Lega. Attento ai falsi amici, dice, chi in questo momento ti candida sapendo che i numeri sono incerti, vuole in realtà ammaccarti.
Draghi insomma potrebbe finire in un remake del film dei 101 voti segreti che il 19 aprile del 2013 mancarono a Romano Prodi per salire al Quirinale. Non arrivarono dal Pd, il suo partito. «I 101 non furono 101. Ma almeno 118 o 120», scrive il professore nel suo ultimo libro Strana vita, la mia (Solferino). L’episodio è noto, gli autori restano quasi tutti ignoti. Un omicidio politico a più mani, un assassinio sull’Orient Express in cui ciascun pugnalatore ha la sua ragione per affondare la lama. E non erano neanche tutte contro di lui le coltellate politiche: lo erano quelle di matrice dalemiana, per una vecchia e irrisolta ruggine; e quelle di qualche “amico” democristiano. Invece la componente renziana puntava innanzitutto a levare di mezzo l’allora segretario del Pd, Bersani, il «cavallo azzoppato da abbattere». Il pezzo forte di quell’ammutinamento fu dovuto alla convinzione che Prodi al Colle avrebbe sciolto il parlamento che non riusciva a trovare i numeri per far partire un governo. Ma invece trovò la compattezza granitica per pregare il presidente in carica Giorgio Napolitano di accettare un secondo mandato. La legislatura, nelle sue mani, divenne a prova di bomba.
E questo è il tratto comune fra il 2013 e il 2022. Anche oggi la stragrande maggioranza dei parlamentari è convinta che dal Colle Draghi non può garantire la durata della legislatura. Quindi gli voterebbe contro: in cima ai sospettati ci sono i Cinque stelle, per lo più certi di non rientrare in parlamento. «Il trenta per cento delle camere», è il conto che fa un deputato dem che chiede di non essere nominato, «sono loro lo zoccolo duro del no a Draghi. Ma il parlamento è balcanizzato, quando si rischia di andare a casa i segretari di partito contano poco. Bruceremo molti nomi. E poi dovremo rivolgerci a Mattarella».
Le quotazioni di Casini
In questi giorni in realtà salgono le quotazioni del senatore Pier Ferdinando Casini. Per lui lavora un altro senatore, Matteo Renzi, descritto dagli alleati in ossessiva ricerca della mossa da kingmaker. In realtà, spiega un terzo senatore, democratico di rango, «nessun candidato è in grado di reggere una campagna elettorale lunga tre mesi. I nomi che filtrano ora sono bruciati». Quanto a Draghi «chiunque venisse incaricato al suo posto a palazzo Chigi avrebbe la fiducia del parlamento. E non si va al voto a un anno, o sei mesi, dalla scadenza della legislatura».
Ma è così? Torniamo al segreto di Pulcinella svelato da Bersani, e cioè il rischio di precipitare Draghi nei panni di un nuovo Prodi impallinato da 101 incappucciati. Non è detto che l’ex segretario del Pd ce l’abbia solo con Salvini. In questi giorni circola la voce di un Letta tentato dal voto anticipato per cogliere il vento in poppa delle amministrative, provare la corsa da premier e prendersi la rivincita per la defenestrazione del 2014. Veleni, secondo la lettura del Nazareno. Che il segretario del Pd smentisce in chiaro: «Niente voto anticipato, si va avanti con Draghi».
Al Nazareno l’idea di Berlusconi al Colle viene derubricata a «un gioco delle parti» delle destre dopo la Waterloo delle amministrative. Ma il ragionamento più interessante è proprio sullo «spettro dei 101». Letta ha giurato di non parlare di Quirinale fino a gennaio. Ma dalle stanze della sede nazionale qualche discorso filtra: «Certo è che bisogna tutelare Draghi, l’attivismo di Salvini e Meloni è funzionale a impallinarlo più che a lanciarlo. E Letta vuole evitare che sia fatto a lui quello che è stato fatto a Prodi».
Fondamentale per la scelta del capo dello stato, poi, è «il contesto». E il contesto secondo i lettiani, europeisti doc, «è l’anno che abbiamo di fronte, anche in Europa: il patto di stabilità da rinegoziare, il tema dell’immigrazione e dei paesi che chiedono di costruire muri, la redistribuzione dei profughi afghani, la questione di Polexit. Tutte cose che hanno bisogno di una solida leadership europea, ora che Angela Merkel non c’è più, Olaf Scholz deve consolidarsi, Emmanuel Macron è in campagna elettorale». E cioè hanno bisogno di Mario Draghi, nella sua funzione di leader europeo dalla postazione di premier italiano.
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