- Grillo, fin dai tempi dei suoi spettacoli negli anni Novanta, non ha mai nascosto una grandissima simpatia per le toghe, soprattutto all’epoca di Mani pulite.
- Con tutti loro, chi prima e chi dopo, i rapporti si sono incrinati dopo traumatiche rotture o annacquati.
- Nel 2017, i capisaldi della linea Cinque stelle sulla giustizia erano le indicazioni di due magistrati importanti come Nino Di Matteo e Piercamillo Davigo, all’epoca in buoni rapporti anche con Sebastiano Ardita, con cui poi ha rotto sulla vicenda della loggia Ungheria.
La storia tra grillismo e un pezzo di magistratura è finita. Eppure l’intesa era solidissima, anzi, legalità e giustizia erano valori fondanti del Movimento della prima ora. La pietra, forse tombale, l’ha messo giovedì l’accordo sulla riforma della giustizia penale: un passo indietro sulla riforma Bonafede che non è piaciuto a una buona parte dei grillini. Ma oltre agli screzi interni che ha provocato la decisione di sostenere ancora una volta un’iniziativa del governo Draghi, aggravando la faida tra Giuseppe Conte e Beppe Grillo e aprendone un’altra tra Alfonso Bonafede e Luigi Di Maio, il via libera del Movimento al ripristino di fatto della prescrizione rappresenta la fine dei buoni rapporti con tutto il mondo della giustizia.
Grillo, fin dai tempi dei suoi spettacoli negli anni Novanta, non ha mai nascosto una grandissima simpatia per le toghe, soprattutto all’epoca di Mani pulite. Stima ricambiata, con molti pm che, soprattutto all’inizio del progetto di Grillo, guardavano con interesse ai V-Day e ai primi passi dei Cinque stelle. La lista di fan è lunga, da Antonio Di Pietro, passando per Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo, senza dimenticarsi di Antonio Ingroia e Luigi de Magistris. Del pantheon dei grillini facevano parte anche Nino Di Matteo e ancor di più Antonio Esposito, presidente del collegio che ha condannato per frode fiscale Silvio Berlusconi nel 2013.
I sindaci
Con tutti loro, chi prima e chi dopo, i rapporti si sono incrinati dopo traumatiche rotture o annacquati. Vale la pena anche ricordare il caso del sindaco di Palermo Leoluca Orlando, antenato del grillismo con la sua Rete nei primi anni Novanta: un paio di giorni fa ha ripreso la tessera del Pd dopo un lungo distacco che lo aveva visto passare per l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro, altro incubatore del grillismo di protesta. «Dopo alcuni anni rinnovo la mia iscrizione al Pd che è punto di riferimento importante alternativo alla destra, capace di tenere coesi diritti e doveri in base a una visione che mette al centro la persona e afferma principi di comunità».
I rapporti di Orlando con il Movimento sono altalenanti e indicativi delle diverse stagioni del grillismo: si passa da una mozione di sfiducia presentata dai grillini nel 2020 a un sostegno insperato alla giunta palermitana negli ultimi mesi. In cambio, Orlando è sempre stato un sostenitore del campo di alleanze larghissimo del centrosinistra.
Sempre parlando di amministratori locali, è interessante guardare a come è evoluto il rapporto tra il Movimento e Luigi de Magistris. Ex sostituto procuratore di Catanzaro, quando ha deciso di tentare la propria fortuna in politica candidandosi alle Europee con Idv ha catalizzato le simpatie di chi si raccoglieva intorno al Blog di Grillo: nel 2009 veniva pubblicato un appello scritto di suo pugno dal candidato. «Faccio questo appello perché ritengo che ognuno di noi, candidati indipendenti a questa competizione elettorale all’interno di Italia dei valori, ha bisogno dei suggerimenti, delle idee, dell’entusiasmo di tutti».
Appena un anno dopo, la sconfessione. Sul blog, il profilo Movimento Cinque stelle scaricava già il neodeputato: «Luigi de Magistris è stato eletto con i voti dell’Italia dei valori e del blog. L’obiettivo era di avere un eurodeputato a Bruxelles e non in televisione (...) È stato eletto come indipendente e poi ha preso la tessera Idv. Parla a nome del Movimento 5 stelle senza averne l’autorità. Il popolo viola (chi è?) con le manifestazioni sovvenzionate dai partiti è per lui un punto di rifermento».
Insomma, un amore finito ancor prima di cominciare, anche perché poi il Movimento a Napoli ha seguito tutt’altre strade (il primo grillino che lo ha sfidato nella corsa a sindaco è stato un giovanissimo Roberto Fico).
La sconfessione
Se la magistratura ricopre un posto speciale nella lista degli affetti dei Cinque stelle, a governare il pantheon c’è Antonio Esposito. Giudice coinvolto in molti casi di rilevanza nazionale, è entrato nel cuore dei grillini nel 2013, quando a 71 anni ha pronunciato la sentenza di condanna per frode fiscale nei confronti di Berlusconi nel processo Mediaset. Dato addirittura per arringatore di folle nelle piazze Cinque stelle (una notizia smentita poi dallo stesso Movimento), Esposito dalla pensione non ha perso occasione per commentare le attività dei grillini, non risparmiando critiche.
Se la linea della norma Bonafede sulla corruzione lo vedeva d’accordo, non è mai stato un estimatore delle consultazioni sulla piattaforma Rousseau, che in un intervento del 2019, quando si stava formando il Conte II e mancava solo il via libera degli iscritti, bollava addirittura come «gravissimo vulnus ai principi costituzionali che regolano la democrazia parlamentare e rappresentativa».
Ingroia e Di Pietro
Ancora diversa è stata l’evoluzione del rapporto con i magistrati prestati alla politica Ingroia e Di Pietro. Se all’inizio della sua carriera il Movimento poteva contarli tra i più accesi sostenitori del progetto, tanto che Di Pietro era addirittura intervenuto in occasione di uno dei meeting di Ivrea dedicati al ricordo di Gianroberto Casaleggio dopo la sua morte, sintomo della grande stima che il Movimento nutriva nei suoi confronti, oggi i simboli dei due partiti da loro creati sono in mano ai gruppi d’opposizione al Senato formati da ex Cinque stelle che hanno lasciato il Movimento.
Mentre l’Italia dei valori è diventato il riferimento di Elio Lannutti (in ottimi rapporti con Di Pietro fin dai tempi delle piazze del popolo viola), Elisabetta Trenta e Piera Aiello, la Lista del popolo per la Costituzione di Ingroia è andata a fondersi con L’alternativa c’è, la formazione dei quattro senatori Mattia Crucioli, Bianca Angrisani, Bianca Laura Granato e Margherita Corrado.
Ingroia oggi spiega che solo nei loro programmi «si riscontrano gli obiettivi originali del M5s», ma lascia la porta aperta a un ritorno alle origini del Movimento: «Negli ultimi anni sono stati sconfessati numerosi punti fermi e pilastri, i Cinque stelle di oggi hanno tradito il Movimento delle origini.
Ma se dovesse esserci un ripensamento verso le istanze originali come la legalità», secondo l’ex pm c’è uno spazio da occupare. Il cavallo su cui punterebbe è senz’altro Alessandro Di Battista, una «risorsa per il paese per il modo d’interpretare le cose, che permetterebbe al Movimento di recuperare consensi». Per lui, Bonafede «si è trovato in una situazione difficile», davanti a cui si è trovato «forse un po’ impreparato, circondato da consiglieri sbagliati».
Grillo invece è «incomprensibile, dopo avermi sostenuto da pm ha poi disatteso ogni mia proposta politica ed è diventato mio oppositore». Insomma, Conte prima di Conte: «Quello che sta subendo lui adesso a me è successo dieci anni fa», dice l’ex pm.
Stesso discorso per Di Pietro: se a dicembre 2020 parlava in un’intervista al Fatto Quotidiano dei grillini come «miei figli» e diceva di preferire «un Movimento granitico come quello che aveva ideato Grillo con capo Di Battista piuttosto che questa Dc», ad aprile sul suo profilo Facebook scriveva che «se Gianroberto (Casaleggio, ndr) fosse ancora vivo ci sarebbe ancora il M5s, oggi c’è il partito M5s».
Gli screzi più recenti
Nel 2017, i capisaldi della linea Cinque stelle sulla giustizia erano le indicazioni di due magistrati importanti come Nino Di Matteo e Piercamillo Davigo, all’epoca in buoni rapporti anche con Sebastiano Ardita, con cui poi ha rotto sulla vicenda della loggia Ungheria.
Il nome di Di Matteo nell’immediata prossimità delle elezioni del 2018 girava anche come potenziale ministro della Giustizia per un ipotetico governo Cinque stelle, mentre Davigo ha preso parte a numerose iniziative del M5s (anche l’appuntamento a Ivrea del 2017), ma non ha mai dato la propria disponibilità per ricoprire una carica.
Ma anche con loro i rapporti del Movimento al governo si sono progressivamente guastati. Davigo, dopo aver smontato alcune iniziative del governo gialloverde, come il Daspo per i condannati, definito «inutile», o la pace fiscale di Matteo Salvini, che a parere del magistrato segnalava che «fare l’evasore in Italia conviene», è incorso di recente addirittura nel “tradimento” di Nicola Morra. Il presidente della commissione Antimafia a lui da sempre vicino non si è fatto scrupoli di raccontare in televisione delle confidenze che gli aveva fatto Davigo «in un sottoscala».
Non è andata molto meglio a Di Matteo. Basta guardare lo scontro con Bonafede: nel 2018 il ministro gli avrebbe offerto la guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), salvo tirarsi indietro nel giro di pochi giorni a causa delle reazioni che la notizia aveva provocato in un gruppo di mafiosi. Nella versione del grillino, la questione sarebbe andata diversamente, con Di Matteo pronto ad accettare un altro incarico e la decisione sul Dap che non sarebbe dipesa in maniera alcuna dalle reazioni dei boss.
Lo strappo si è consumato in prima serata, nell’Arena di Massimo Giletti davanti a milioni di spettatori, con due telefonate a cui sono poi seguite repliche in studio, ulteriori interventi e altre valutazioni. Un divorzio in televisione, il modo peggiore per chiudere le storie.
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