Martedì la segretaria Pd incontra Meloni, è la prima prova delle riforme. Sul «No» Schlein può ricostruire un’alleanza democratica. Ma deve stare attenta ai suoi che non vogliono fare «l’Aventino». E a Renzi, pronto a dialogare con la destra
La prudenza è una virtù cardinale che Elly Schlein ha già dimostrato di saper esercitare. Domani dovrà praticarla più del solito. Perché alla biblioteca del presidente della Camera, alle 18 e 30, vedrà per la prima volta la premier Giorgia Meloni per un confronto sulle riforme costituzionali. Le due leader non saranno sole: la premier sarà scortata dalla ministra delle Riforme Maria Elisabetta Casellati, dai suoi due vice Antonio Tajani e Matteo Salvini, dai sottosegretari Alfredo Mantovano e Giovanbattista Fazzolari, dal ministro dei Rapporti con il parlamento Luca Ciriani e dal consigliere giuridico Saverio Marini. Dall’altro lato del tavolo, la segretaria Pd avrà al fianco i due capigruppo di camera e senato Chiara Braga e Francesco Boccia e il responsabile riforme del Pd Alessandro Alfieri. E alla fine del match la segretaria dovrà misurare bene le parole. Ma qualcosa di chiaro dovrà dirlo.
Al Nazareno assicurano che Schlein padroneggia il dossier: è laureata in giurisprudenza con una tesi in diritto costituzionale, e soprattutto, negli scorsi anni, ha partecipato alle campagne per il No alla riforma Renzi-Boschi del 2016 e per il No al taglio dei parlamentari nel 2020. Il punto, domani, è però azzeccare la politica: di fronte alle proposte che sentirà dalla premier, Schlein deve centrare il grado di opposizione giusto, la «postura» dicono al Nazareno, in una scala dalle molte sfumature, dal “no a prescindere” alla disponibilità a dialogare, anche solo per tattica. È una scelta delicata: perché nel suo partito, neanche a dirlo, quelle sfumature sono tutte rappresentate.
La premier ha convocato le opposizioni per un giro di confronto su riforme sulle quali non ha ancora deciso che strategia adottare. Rallentata, più che aiutata, dalla ministra Casellati che ha la titolarità formale del fascicolo. In realtà la premessa del confronto è una promessa, o meglio un avvertimento, formulato a pochi giorni dalla vittoria elettorale: «Noi in questa legislatura faremo una riforma in senso presidenziale. Saremo felici se la sinistra ci darà una mano, ma se gli italiani ci daranno i numeri per farlo, noi lo faremo comunque».
È andata diversamente, gli italiani non le hanno dato i numeri per «fare da soli», almeno non senza un aiutino delle opposizioni. Ma sul pallottoliere torneremo più avanti.
Restiamo a Schlein. Sabato a Bologna, dalla piazza della Cgil – che, è utile ricordarlo, è stata protagonista della battaglia per il no alla riforma Renzi-Boschi – sul tema è stata laconica: «Andiamo a sentire, poi decideremo». Prudenza, appunto. Un metodo che la segretaria applica per sé ma a cui vuole abituare tutto il gruppo dirigente, per lasciarsi alle spalle la stagione del Pd cacofonico, del «tutto e il contrario di tutto».
Per questo Schlein ha convocato per queta mattina una segreteria allargata ai componenti delle commissioni Affari costituzionali di camera e senato. Prima di quella riunione, sono da evitare le dichiarazioni a ruota libera: non è un ordine, viene spiegato dal Nazareno, ma appunto «un metodo». Innanzitutto perché non è chiaro cosa metterà sul tavolo la premier.
Le proposte del Pd
È facile invedere prevedere le “pregiudiziali” che porterà il Pd. Un preambolo che più o meno suonerà così: cara presidente, per noi non è accettabile né il presidenzialismo né il semipresidenzialismo, ma anche solo per immaginare una discussione, tolga subito dal tavolo l’abolizione del secondo turno nei comuni che la Lega spinge al senato.
Ma appunto, bisogna vedere cosa dirà Meloni. Fin qui del Pd l’unico autorizzato ad anticipare qualche proposta è stato Alfieri, in un’intervista al Sole 24 Ore: no all’elezione diretta sia del capo dello stato sia del presidente del Consiglio, giù le mani dal Colle, ovvero «la figura del presidente della Repubblica, arbitro e garante della Costituzione e della coesione nazionale, non va toccata. Quanto al capo del governo, una sua elezione diretta svuoterebbe la funzione del presidente da Repubblica». Ferma restando la Repubblica parlamentare, sul rafforzamento dei poteri del premier si può discutere «per garantire la governabilità», introducendo la sfiducia costruttiva, il potere di nomina e revoca dei ministri, il voto a data certa per i provvedimenti del governo.
L’aiutino del Terzo Polo
Per Meloni la convocazione delle opposizioni è innanzitutto un messaggio alla sua maggioranza: la Lega ha ingranato la quarta sull’autonomia differenziata, FdI chiede che il presidenzialismo proceda di pari passo. Ma la premier sa anche che il presidenzialismo, nel paese, può innescare un’onda di opposizione anomala. Resta scolpito nella sua memoria il precedente della Waterloo di Matteo Renzi, al referendum del 2016: a quella sconfitta FdI ha partecipato baldanzosamente. Il suo slogan era: «Metti in agenda il giorno in cui manderemo a casa Renzi». Oggi suona come una «memento».
Per questo la prudenza è un obbligo anche per Meloni. Deve decidere come procedere, se con una commissione ad hoc (ipotesi che lei preferisce, magari corredata dell’apposita commissione di giuristi bipartisan, buona a comporre i conflitti) o per via ordinaria con l’articolo 138 della Carta (la strada che invece preferisce Casellati, che teme che la premier le scippi il protagonismo).
La madre di tutte le battaglie, per FdI, è il presidenzialismo, ma non è scartata l’idea di virare sul premierato. Una soluzione che le permetterebbe di incassare i voti del Terzo Polo, già sul mercato. Sabato Renzi ha twittato: «Italia viva sostiene da sempre il sindaco d’Italia con l’elezione diretta del premier e il superamento del bicameralismo paritario. Speriamo sia la volta buona». Inseguito da Carlo Calenda: «No al presidenzialismo, noi siamo per il premierato; poteri forti del premier e anche indicazione del premier magari» ma senza «toccare la presidenza della Repubblica».
Qui arriviamo al pallottoliere: in questa partita il Terzo Polo si gioca una carta importante. Renzi punta a riprendersi un ruolo politico, magari convincendo la premier ad “accontentarsi” del semipresidenzialismo, per proclamarsi «salvatore» del paese. Sulla carta i voti del duo Renzi-Calenda non bastano ad assicurare la maggioranza dei due terzi in parlamento, quella che esclude il ricorso al referendum, che è senza quorum, a scontro diretto fra sì e no, ed è quindi sempre un terno a lotto. Ma a quella quota non è inarrivabile: in entrambe le camere la somma di destra, Iv e Azione arriva a una manciata di voti dalla meta. Basterebbe qualche transfuga, qualche incerto del gruppo misto, qualche volonteroso soccorritore di vincitori. Ci si può lavorare.
L’occasione di Schlein
Torniamo a Schlein. Sa che la battaglia contro il presidenzialismo può essere per lei il bingo della legislatura. Sulle riforme istituzionali i governi cadono e le leadership si consumano, come è successo a Renzi; e le alleanze che sembrano impossibili, magicamente si materializzano.
I tempi sono lunghi: Casellati annuncia un testo per giugno, l’articolo 138 garantisce un lavoro di almeno due anni.
Ma se per ora – e fino alle europee – fra Schlein e Conte la sfida fratricida è inevitabile, per il dopo il fronte contro il presidenzialismo diventa l’occasione per rimettere insieme la coalizione giallorossa, nella sua combinazione rossogialla – cioè con un Pd irrobustito e un M5s dimagrito – e per di più in versione civica: sulla battaglia può risorgere un’edizione di sinistra della famosa «accozzaglia» (copyright Renzi) che travolse il governo. La segretaria Pd può puntare a fare la regista di questo movimento, se non la leader. Alcune forze civiche fanno già rullare i tamburi di guerra.
A partire dall’Anpi, che nel 2016 capeggiò il fronte del No (indimenticabile lo scontro fra il rottamatore Renzi, quarantenne, e l’allora novantatreenne presidente Carlo Smuraglia alla festa dell’unità di Bologna, finì 10 a zero per quest’ultimo).
L’Anpi è già in campo
L’Anpi è già in campo contro l’autonomia differenziata, spiega il presidente Gianfranco Pagliarulo. «Siamo impegnati a sostenere la proposta di legge popolare firmata da Massimo Villone e altri, che taglia gli artigli a un’autonomia che avrebbe esiti catastrofici dal punto di vista dell’uguaglianza dei diritti». Quanto alle future riforme, «la proposta Meloni ancora non c’è. Ma abbiamo alcune certezze: primo, l’Anpi è contraria a forme di presidenzialismo o semipresidenzialismo, perché per noi la difesa della Costituzione passa per la revitalizzazione del parlamento. Secondo: fin qui sul piatto c’è un vecchio disegno di legge di FdI che prevede che il capo dello stato sia anche il capo del governo. Il vizio propagandistico è che il popolo si esprime. Ma se c’è questa voglia di partecipazione popolare si cambi una legge elettorale che impedisce agli elettori di scegliersi i candidati. Siamo alla demagogia che copre il trasferimento di un grande potere a una persona, con il rischio di un grande condizionamento della vita democratica».
L’attacco al Colle
L’altro punto forte su cui le associazioni a difesa della Costituzione iniziano a scavare le trincee è la difesa di Sergio Mattarella, il presidente della Repubblica garante della Costituzione antifascista, l’istituzione che ispira la massima fiducia per gli italiani e che non a caso è il bersaglio del tentativo di ridimensionamento della premier. Sul delicatissimo tema il Colle resta blindato nel suo ruolo di garanzia. Ma è evidente che le riforme di Meloni impatteranno contro Mattarella, in ogni caso: sia con il presidenzialismo sia nel caso di un premier eletto dal popolo e dotato di nuovi poteri.
L’esame di stato
Per questo le riforme istituzionali sono per Schlein una specie di esame di stato. Un esame di maturità per guadagnarsi l’upgrade, il passaggio di ruolo da leader movimentista a «punto di riferimento fortissimo» di una nuova alleanza di centrosinistra, non solo fra partiti ma fra forze civiche pronte alle barricate a difesa della Costituzione.
Ma qui c’è il nodo della prudenza. Nel Pd che sette anni fa ha sostenuto la riforma Renzi una qualche forma di premierato è data per acquisita: «La proposta di Renzi in realtà affondava le sue radici nel programma dell’Ulivo del 1996, dove c’era la proposta di un premierato forte, fino a prevedere sulla scheda l’indicazione anche del candidato premier. Che comunque non equivale a un’elezione diretta, che porterebbe con sé il meccanismo rigido dei comuni», ricorda il costituzionalista Stefano Ceccanti. E il politologo Salvatore Vassallo invita Schlein a decidere fra «seguire l’istinto dei suoi principali alleati (M5s e Cgil) e delle componenti (ex Sel, Art.1) che ha cooptato nel Pd, salendo subito sull’Aventino; oppure se rimanere sulla linea che il Pd e l’Ulivo hanno sempre tenuto».
Una decisione delicata, una posta in gioco altissima: quella di un Pd a caccia di distinguo o a capo del No alla riforma. «Schlein deve esprimere la sua leadership non solo dicendo no alla proposta Meloni ma proponendo a sua volta una linea politica», ragiona l’ex senatore Luigi Zanda. «Va detto che l’invito con cui la presidente del Consiglio ha convocato le opposizioni è una specie di villania costituzionale: venite a discutere, se siete d’accordo bene, se non siete d’accordo la riforma la faccio lo stesso». Ma in ogni caso il Pd deve fare un salto di qualità nella riflessione programmatica: «Siamo contro la riforma presidenzialista, certo. Ma il punto da capire è qual è la malattia dell’Italia. Non credo sia la Costituzione. E attenzione: i due sistemi presidenziali a lungo invidiati, quello americano e quello francese, oggi sono sotto schiaffo. In ogni caso noi che cura proponiamo? La mia opinione è che la malattia italiana non risieda nella forma della Repubblica parlamentare, ma nelle disfunzioni del sistema politico. Dunque serve una legge elettorale che non aggravi la malattia. E l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione. E penso anche che la forma parlamentare della Repubblica sia uno dei “princìpi supremi” che possono essere modificati solo con un’assemblea costituente, certo non con l’uso dell’articolo 138».
Un suggerimento per l’esame di maturità di Schlein, dunque? No, scherza ma non troppo Zanda, «sul terreno delle riforme costituzionali ogni obiezione va motivata con argomentazioni politiche e istituzionali. Non siamo ancora all’esame di maturità: siamo ai test di ammissione».
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