- La multinazionale svizzero-svedese ha annunciato per giugno la chiusura dello stabilimento pur avendo ricevuto oltre due milioni di sussidi statali e non vuole neanche sentir parlare di advisor e dell’offerta d’acquisto di un imprenditore veneto supportato dalla Regione.
- Le reazioni sono di silenzio complice della Confindustria locale e le distanze tra il presidente del Veneto Zaia e il ministro Giorgetti.
- Il settore gomma-plastica traina la ripresa italiana e ha fatto affari d’oro durante la pandemia. Dal 3 luglio imballaggi e prodotti mono uso sono al bando, si devono ridurre e neanche le bioplastiche vanno bene.
Plastica dappertutto, in ogni angolo delle grandi città, sulle spiagge, sul ciglio delle strade di campagna e naturalmente sui banchi dei supermercati. È il lascito più evidente di due anni di Covid. L’Italia entro lo scorso 3 luglio avrebbe dovuto recepire la direttiva 904 del 2019 per limitare l’uso della plastica monouso. Ma non l’ha fatto e ora rischia una procedura d’infrazione dopo la presentazione del reclamo da parte di Greenpeace e di altre associazioni ambientaliste a Bruxelles. A pagarne le conseguenze sono anche gli operai della Abb di Marostica, provincia di Vicenza.
Multinazionali e artigianato plastico
Abb è una multinazionale svizzero-svedese che in Italia ha 18 stabilimenti, tutti metalmeccanici, dedicati alla robotica e alla produzione di mezzi di trasporto pubblici elettrici, tranne quello di Marostica che produce corrugati e scatole di derivazione e quindi fa parte del comparto gomma-plastica radicato nel Vicentino con circa 8 mila dipendenti.
La multinazionale Abb intende chiuderlo e mandare a casa i 55 dipendenti e non è disposta a vendere. Stessa sorte toccherebbe ai circa altrettanti interinali e alla ventina di addetti alla logistica. L’azienda è in attivo, nel primo semestre dell’anno ha aumentato il fatturato del 30 per cento, ha commesse importanti per Enel e in più negli ultimi tre anni ha ricevuto almeno 2 milioni e 300 mila euro di finanziamenti statali ma snobba l’offerta d’acquisto arrivata da un imprenditore del territorio, racconta la delegata della Filctem-Cgil Laura Scalzo.
«La prima bozza del decreto delocalizzazioni imponendo un advisor per un piano di reindustrializzazione e la valutazione di offerte di acquisto pena dover restituire i finanziamenti pubblici avrebbe potuto dare una mano, la seconda bozza, molto più flebile sulle sanzioni, probabilmente non aiuterebbe molto, comunque da mesi come sindacati abbiamo chiesto un incontro al ministero ma non abbiamo mai ricevuto una convocazione».
Nella regione dominata dalla Liga veneta di Luca Zaia, la visibilità degli scioperi degli operai Abb da marzo a settembre non è stata molta, è rimasta sotto tono anche la solidarietà di una comunità estesa.
Eppure l’imprenditore che vorrebbe rilevare l’impianto garantendo il posto di lavoro a tutti gli operai della Abb, Paolo Zanetti, ha già nel curriculum operazioni di salvataggio industriale nel territorio con l’appoggio della finanziaria regionale e l’assessora regionale Elena Donazzan si è impegnata a dare una soluzione alla vertenza.
Il potere e la responsabilità d’impresa
«Ciò che è mancato è stato un atteggiamento della Confindustria di Vicenza più vicino alle esigenze del territorio», racconta Giuliano Ezzelini Storti, segretario Flitctem di Vicenza. «Oltre al fatto che il ministero è uscito dai radar», aggiunge.
Ma perché la Confindustria locale non appoggia i referenti regionali e un imprenditore del territorio a tutto vantaggio di una multinazionale estera che vuole abbandonarlo? Secondo Ezzelini Storti «si vuole dare un messaggio ad eventuali altre vertenze, quello di non disturbare il manovratore».
Impossibile chiederne conto, pur provandoci, alla nuova presidente di Confindustria Vicenza Laura Dalla Vecchia o a uno dei più importanti associati: Renato Zelcher, presidente europeo delle industrie di trasformazione delle materie plastiche EuPc e membro del consiglio nazionale di viale dell’Astronomia. Non rispondono.
Le bioplastiche soluzione all’italiana
Limitare la plastica da polimeri fossili alle sole lavorazioni indispensabili è il primo imperativo dell’Europa, come ricorda il professor Francesco Paolo La Mantia, del dipartimento di ingegneria chimica dei materiali dell’università di Palermo, consulente di Novamont, azienda all’avanguardia nelle bioplastiche compostabili: «Le materie plastiche se smaltite correttamente attraverso la raccolta differenziata sono riciclabili, ad esempio per fare bitume e pece. I polimeri biodegradabili o bio-based non presentano difficoltà tecniche particolari per sostituire molti lavorati in polietilene, polipropilene e Pet, che rappresentano l’85 per cento del mercato».
La lavorazione dei derivati del petrolio è relativamente banale, si riscalda, si mettono i catalizzatori, si stampa. Passare alle bioplastiche ricavate da amidi e zuccheri richiede più passaggi e tempi più lunghi, spiega il professor La Mantia, ma si fa con gli stessi macchinari: «Forse ci potrebbe essere una diminuzione della produttività degli impianti, per cui servirebbe un’economia di scala più ampia delle aziende semi artigianali nate nel settore, ma la trasformazione degli impianti di trasformazione, non pone grandi problemi di costi e tecnologia».
Tutto il contrario di ciò che sostengono le associazioni confindustriali appoggiate senza grandi distinguo dai sindacati di categoria. La presidente della Confindustria Vicenza, Dalla Vecchia, denuncia che «la conversione ecologica delle produzioni e la trasformazione delle competenze richiedono sforzi enormi», l’industria della plastica del vicentino ha bisogno di tempo per «evitare disastri sociali».
Invasi da plastiche monouso
Secondo Greenpeace, il governo dovrebbe supportare il tessuto industriale a riconvertirsi fornendo reali e durature soluzioni e non cercare di garantire una sopravvivenza delle lavorazioni attuali che non possono che essere limitate nel tempo. «Siamo l’unico paese dei 27 europei che favorisce l’utilizzo delle bioplastiche come scelta meno peggio rispetto all’attuale 80-85 per cento di polimeri da fonti fossili nei prodotti monouso attualmente in circolazione».
Anche il dibattito che c’è in Italia sulla plastic tax dal punto di vista degli ambientalisti, è distorto perché il quadro non è stato ancora definito a livello europeo e quindi si basa su illazioni. La direttiva spinge invece alla responsabilità sociale d’impresa per i costi di smaltimento della plastica, la limitazione delle emissioni di CO2 e prescrive la riduzione del consumo di prodotti monouso -specialmente se in polistirolo, il più difficile da smaltire nella differenziata e deteriorabile in mare non prima di dieci generazioni umane - puntando su alternative di riuso.
È classico l’esempio delle bottiglie per l’acqua in Pet, di cui l’Italia è il maggior consumatore a livello europeo e il terzo al mondo. Non è vero che se in bioplastica si possano disperdere nell’ambiente. Se correttamente recuperate con una piccola tassa sul vuoto a rendere il polietilene di riciclo può essere sufficientemente purificato per altri stampi come i vasi per le piante, l’arredo urbano e i teloni agricoli, come spiega ancora il professor La Mantia. Ma il nodo resta utilizzarne di meno facilitando l’uso di bottiglie ricaricabili o borracce.
Il Parlamento italiano ha definito da un paio di mesi le indicazioni per la normativa di recepimento della direttiva europea sulla plastica ma secondo le indiscrezioni raccolte dagli ambientalisti il legislatore italiano si è fatto influenzare dalle lobby dell’industria della plastica tradizionale e ha fornito una bozza in evidente contrasto con gli obietti europei.
Se anche la Commissione di fronte alla normativa, alla fine dll’iter, dovesse eccepire, ci troveremmo di fronte al paradosso del popolo degli inquinati, i contribuenti, costretto a pagare la multa per esonerare gli inquinatori dagli extra costi della transizione verso un’economia circolare. E gli operai della Abb di Marostica sarebbero solo i primi a pagare per la mancata riconversione del settore gomma-plastica del Nord-Est e per il rifiuto confindustriale a una maggiore responsabilità nei confronti della collettività che l’Europa ci chiede, tanto nelle procedure dei licenziamenti collettivi quanto sull’ambiente.
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