Dopo cinque anni dalla firma dell’accordo Italia-Libia e quattro governi, niente è cambiato. Si continua a morire nel Mediterraneo, migliaia di migranti vengono riportati nei lager libici tra abusi, torture e violenza, l’industria del traffico di esseri umani incrementa il suo spietato fatturato, mentre l’Europa continua a far finta di non vedere.

Firmato a Roma il 2 febbraio del 2017, il Memorandum di intesa fondato sull’esternalizzazione delle frontiere, sancì la dottrina Gentiloni-Minniti, misurando la bontà del proprio assunto su nient’altro che il numero degli intercettati o il calo degli arrivi via mare.

Un assunto che deve però ritenersi fallimentare, perché in cinque anni non solo non ha fermato le stragi in mare, con oltre 8.000 morti lunga la rotta del Mediterraneo, ma ha consentito all’industria del contrabbando e della detenzione di esseri umani di diventare sempre più fiorente, riciclando e reinvestendo, grazie anche a ruoli di responsabilità ricoperti da propri uomini nella cosiddetta Guardia costiera o in altre istituzioni libiche.

Centri di detenzione e ricatti

Sarebbe ipocrita nasconderselo, ma il business dei centri di detenzione e l’odiosa pratica dei riscatti estorti alle famiglie di chi arriva in Libia, per raggiungere l’Italia e l’Europa, altro non sono che la conseguenza dell’aumento delle persone riportate in Libia dalla Guardia costiera negli anni: oltre 80.000 dal 2017, di cui 32.000 solo nel 2021. Non solo: dei 32.000 deportati del 2021, è rimasta traccia solo di 12.000, registrati in centri ufficiali, mentre i restanti 20.000 sono diventati dei fantasmi, senza esiti o destini, stritolati probabilmente nella morsa di aguzzini e trafficanti.

La difesa dei diritti umani è stata affrontata ancora una volta come una variabile “esogena”, una componente che nei fatti non ha influenzato nel tempo le scelte politiche dei leader italiani ed europei, sia nell’approccio strategico complessivo, quanto nella scelta degli interlocutori libici specifici, che di volta in volta si sono susseguiti. È stata semplicemente sacrificata all’altare di una apparentemente ineluttabile realpolitik.

Il rapporto con l’Italia

31-05-2021, il premier Draghi incontra primo ministro libico Abdulhamid Dbeibeh Nella foto: Abdulhamid Dbeibeh, Mario Draghi (Foto Fabio Frustaci/POOL Ansa/LaPresse)

L’accordo Italia-Libia costituisce di fatto l’inizio di un vero e proprio “scacco ai diritti umani”, nonostante nel tempo si sia voluto accreditare la Libia come un paese sicuro, e che restituirle i migranti intercettati provenienti dalle sue coste fosse tra le opzioni plausibili. Per allestire tutta questa finzione si è formata e addestrata la Guardia Costiera libica con fondi italiani (al costo di 32,6 milioni di euro in 5 anni) ed europei, la si è dotata di mezzi e le si è dato supporto nella richiesta di riconoscimento di una propria zona SaR da parte dell’International Maritime Organization.

L’Italia in questi anni ha provato in tutti i modi a superare l’ineluttabilità geografica e giuridica dell’essere il paese europeo principalmente coinvolto dagli sbarchi provenienti dalla rotta del Mediterraneo centrale. Ma l’ha fatto nel modo peggiore possibile, senza valori, senza umanità, senza diritti, oltre tutto senza una vera e comune visione europea, ispirata ai principi fondamentali dell’Unione. La strada resta sempre la stessa: superare i limiti imposti dal Trattato di Dublino, seguendo un approccio solidale, portando finalmente acqua e vita a una missione europea in grado di attuare ricerca e soccorso nel Mediterraneo e ampliando le vie legali di ingresso.

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