- Puntuali come la scadenza del settennato, si inseguono in questi giorni gli appelli per una donna al Quirinale, provenienti sia dalla società civile sia da alcune frange dei partiti. Ma quale donna?
- Poiché proveniamo da una storia pluridecennale di esclusione, l’errore più grande è annacquare la singolarità delle storie e delle personalità politiche femminili nell’indistinto della categoria di genere.
- Vogliamo «una donna al Colle»? Facciamo i nomi. Altrimenti si tratta di un esercizio retorico o strategico.
C’è un personaggio leggendario che si aggira nelle stanze della politica italiana, pronto a essere invocato in fasi cruciali come la formazione di un nuovo governo o l’elezione del presidente della Repubblica.
Il suo nome è «una donna».
Questo soggetto ha tutte le qualità per rivestire ruoli di responsabilità. Quel che le manca è un volto. Un aspetto, diciamo, non proprio accessorio.
Puntuali come la scadenza del settennato, si inseguono in questi giorni gli appelli per una donna al Quirinale, provenienti sia dalla società civile sia da alcune frange dei partiti. Ma quale donna? Sembra che nessuno voglia darle un nome e un cognome.
Un gruppo di celebrità del mondo della cultura e dello spettacolo, tra cui Dacia Maraini, Michela Murgia, Luciana Littizzetto, scrive: «È arrivato il tempo di eleggere una donna». Ma aggiungono: «Non è questa la sede per fare un elenco di nomi».
Tra i partiti, a cavalcare la battaglia (per qualche settimana) è stato il Movimento 5 stelle: una forza che, pur avendo portato in parlamento la maggiore quota di donne, ha sempre trattato la parità di genere come una questione superata.
La donna giusta per il Quirinale resta comunque senza nome, anche in quella che è apparsa come una mossa strategica di Giuseppe Conte.
Ci sono, è chiaro, ottimi argomenti che si possono spendere sulla necessità di rompere il monopolio maschile sul Colle. Nei settantacinque anni di storia della Repubblica, non solo nessuna donna ha ottenuto l’incarico, ma nemmeno ci si è avvicinata – come, del resto, a quello di presidente del Consiglio.
Però, proprio perché proveniamo da una storia pluridecennale di esclusione, l’errore più grande è annacquare la singolarità delle storie e delle personalità politiche femminili nell’indistinto della categoria di genere.
Questa sottolineatura può, certo, aiutare a far emergere profili che rischiano di non essere riconosciuti, ma altrettanto rafforza la percezione che una donna vale l’altra. Mentre ci impedisce di vedere la gigantesca questione di genere della politica italiana.
Perché quando dal vago «una donna» si passa ad elencare i profili capaci di ottenere i consensi necessari, ci si accorge che si contano sulle dita di una mano.
Si vede, cioè, che per quanto l’Italia sia ricchissima di talenti femminili in tutti i campi, quello della politica è ancora l’ambito in cui alle donne è largamente preclusa la possibilità di segnalarsi per i propri meriti e acquisire l’esperienza necessaria al ruolo di capo dello stato.
Questo è il nodo da affrontare. E non lo si scioglie né con campagne generiche, né usando le donne come totem nei momenti di difficoltà, né infine giocando – nello stile antipolitico che fu del M5s – la carta dell’outsider.
Vogliamo «una donna al Colle»? Facciamo i nomi. Altrimenti si tratta di un esercizio retorico o strategico. In entrambi i casi, di un messaggio sconfortante per chi, nella forza politica che le donne possono esprimere, ci crede davvero.
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