Il porto di Shengjin trasformato nel palco di una farsa con protagonisti la presidente del consiglio Giorgia Meloni e il premier dell’Albania Edi Rama. Due campioni nell’arte del vittimismo, cercano nemici ovunque pur di dribblare i problemi reali.

Meloni è in apprensione per le imminenti elezioni europee. La conferma è l’inutile viaggio, uno spot elettorale, alla corte del socialista Rama per ribadire che i centri si faranno, nonostante i ritardi, le critiche e quei giornalisti che continuano a impicciarsi del modo in cui verrà impiegato quasi un miliardo della collettività.

La gita albanese è solo l’ultimo capitolo della serie andata in onda sulle frequenze di Palazzo Chigi dal titolo, ipotizziamo, “Per un pugno di voti”. Segue, infatti, la stretta di mano istituzionale a Vicenzo De Luca con annesso turpiloquio, «sono quella stronza della Meloni», a favore di telecamere della sua squadra social.

Ed è successiva di poche ore all’irrituale incontro del procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, ufficialmente per presentare un esposto contro le truffe sui decreti flussi inquinati dalle organizzazioni mafiose. Fatto già noto da almeno tre anni e che Meloni scopre improvvisamente a cinque giorni dalle elezioni. Sgrammaticature istituzionali, indicative di una leader non così forte come vuol far credere.

Colpisce, tuttavia, il silenzio della presidente di fronte al monologo di Rama che attacca il nostro giornale, il servizio pubblico (Report) e si spinge fino al surrealismo negando l’esistenza della mafia nel suo paese. Se non fosse accaduto davvero potrebbe sembrare la trama di un film di fantascienza.

Sebbene le parole di Rama su Domani siano gravi, c’è un fatto ancora più inquietante: quando, cioè, Meloni nel prendere la parola solidarizza, «anche a nome del popolo italiano», per gli attacchi (così definisce gli articoli) ricevuti dal premier albanese. Teatrino curioso in cui la presidente di tutti gli italiani legittima gli attacchi (questi sì che lo sono) ai giornalisti che hanno indagato sugli affari della mafia in Albania.

Il silenzio non deve stupire per due motivi: è noto che non stiamo particolarmente simpatici alla presidente del consiglio, inoltre il 10 luglio si svolgerà la prima udienza del processo per diffamazione contro Emiliano Fittipaldi (il direttore di Domani) scaturito dalla denuncia di Meloni dopo un articolo sgradito; il secondo motivo è storico, ricordiamoci che Meloni ha avuto un maestro di nome Silvio Berlusconi, il quale in un incontro (anno 2008) con Vladimir Putin alla domanda di una giornalista russa ha risposto mimando un mitra indirizzato alla cronista.

Meloni ha sempre sostenuto di aver iniziato a fare politica dopo la morte di Paolo Borsellino. Per lei, ripete di continuo, è un esempio. Chissà il giudice trucidato dalla mafia siciliana come avrebbe commentato le dichiarazioni negazioniste di Rama sulla criminalità organizzata rilasciate durante la conferenza stampa all’interno del centro hotspot di Shengjin. Rama ha accusato Domani di aver fornito un’immagine “mafiosa” dell’Albania. La nostra colpa è aver pubblicato un reportage dal titolo “I centri per migranti nella roccaforte dei clan”.

Secondo Rama «non c’è nessuna mafia» e il concetto serve solo «a gettare fango». Arriva persino a fornire una sua analisi del fenomeno mafioso in generale: «I gruppi criminali albanesi non sono mafia perché non hanno una struttura verticistica ma orizzontale». Lo ha detto davvero. Ma è una menzogna. I migliori alleati dei «gruppi albanesi» sono i clan della ‘ndrangheta e della camorra, che hanno una struttura orizzontale. Ci sono sentenze anche in Italia che certificano l’alleanza mafiosa tra clan albanesi e calabresi e campani. Una triade che insieme gestisce più della metà del traffico di cocaina in entrata in Europa. Hanno contatti diretti con i cartelli colombiani e messicani. In Olanda hanno stretto una vera e propria joint venture per sfruttare al massimo il porto di Rotterdam. Rama arriva a dire persino che ha parlato con la super procura di Tirana e che l’autorevole procuratore ha confermato la sua analisi.

Non sappiamo i contenuti del dialogo tra il magistrato e il premier, ma è curioso che un premier tiri in ballo l’ufficio che alla fine di maggio ha condotto una delicata indagine proprio nel comune di Lezhe. Di questa inchiesta abbiamo dato conto nell’articolo pubblicato e contestato da Rama. Lezhe è il municipio in cui ricadono le aree dove sorgeranno i centri italiani per migranti. L’elenco dei reati contestati agli indagati è sufficiente a lettore per farsi un’idea della capacità criminale di questi gruppi che per Rama non sono mafia: omicidi, tentati omicidi, corruzione, abuso d’ufficio, traffico di migranti, pestaggi, gioco d’azzardo, minacce. Coinvolti in questa complessa operazione della procura troviamo sia poliziotti di Lezhe, capi clan e un politico, l’ex deputato socialista Arben Ndoke, accusato anche di aver fornito informazione per commettere un omicidio. Ndoke è ritenuto molto vicino all’entourage del premier. E forse l’aver citato questo nome che ha dato più fastidio al nuovo partner politico di Meloni?

Le bugie di Rama sulla mafia ricordano quelle dei politici democristiani siciliani che si affannavano a urlare “ma quale mafia e mafia”. Lo facevano per nascondere l’esistenza di un potere criminale che si stava divorando il paese. Era il sistema ritratto da Leonardo Sciascia ne “Il giorno della civetta”. Un’epoca lontana. Forse non per l’Albania.

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