I cattolici democratici, dopo la fine della Dc, sono stati cofondatori dell’Ulivo e dei dem. Ma hanno faticato a ridefinire la loro natura. E oggi non basta più difendere uno spazio
Quarant’anni fa, all'inizio del 1984, il giornalista Arrigo Levi pubblicò un piccolo libro con l’editore Laterza dedicato alla Dc nell’Italia che cambia, chiedendosi le ragioni del crollo elettorale del partito che governava senza interruzioni l’Italia da decenni e che un anno prima, nel 1983, aveva perso sei punti e oltre due milioni di voti.
Ascoltò le voci dei protagonisti, i politici, i capi corrente, gli analisti, gli intellettuali e alla fine divise gli intervistati in due categorie. Gli strutturalisti, che attribuivano la crisi della Dc a cause antiche e si dicevano pessimisti sulla possibilità di intervenire, e i congiunturalisti, che attribuivano invece la sconfitta elettorale agli errori del segretario in carica al momento del voto (Ciriaco De Mita) e invocavano come soluzione un cambio di rotta, o di guida.
La divisione tra strutturalisti e congiunturalisti ritorna ogni volta che un grande partito finisce in crisi. Un grande partito con qualche radice, non le meteore cui siamo abituati da tempo. Così è stato per il Pci, vale oggi per il Pd, un partito in cui la specialità è addossare alla guida di turno ogni male presente, ignorando le cause più remote della crisi.
Anche per questo, il dibattito interno che si è scatenato attorno al ruolo dei cattolici nel Pd è una cartina di tornasole dello stato dell’arte un anno dopo le primarie che hanno portato alla vittoria a sorpresa Elly Schlein.
Un approccio congiunturalista attribuisce ogni colpa all’attuale segretaria che sarebbe estranea alle grandi culture riformiste che hanno costruito il Pd. La più in sofferenza è quella cattolico-democratica, lontana erede della Dc, che non perde occasione per manifestare disagio e irrilevanza nel nuovo corso. Ma un approccio strutturalista consiglia di prendere la questione cattolica nel Pd più alla lontana.
Le quattro crisi
Ho già parlato su Domani del volume sulla storia della Dc, pubblicato da poco dal Mulino, in cui i tre autori (Guido Formigoni, Paolo Pombeni, Giorgio Vecchio) utilizzano per la Democrazia cristiana quattro definizioni: un partito di ispirazione cristiana, il partito-stato, il partito-società, un partito insieme plurale e unitario.
A queste definizioni sono corrisposte quattro crisi che hanno travolto tutto il sistema politico, di cui la Dc era architrave. L’ispirazione cristiana non serviva più al nuovo potere, la borghesia del benessere e del consumo, come aveva anticipato Pier Paolo Pasolini dopo il referendum sul divorzio del 1974. Al suo posto avanzava una secolarizzazione che non era soltanto una positiva conquista di laicità, ma anche «un salto nel vuoto etico» (secondo la definizione di Pietro Scoppola).
Il partito-stato terminava perché già all’inizio degli anni Ottanta, con la rivoluzione conservatrice di Reagan e Thatcher, avanzava la privatizzazione di ciò che era pubblico, compresa la politica, erosa in Italia, un paese di fragile senso civico, dalla ragnatela degli interessi particolari, i poteri economici, le lobby, le mafie.
Il partito-società che si era adattato alla società italiana come un guanto alla mano si ritrovava a domare a fatica una spinta anarcoide, le corporazioni, le leghe, la rottura della coesione sociale e dell’unità nazionale.
Il partito plurale e unitario non aveva più motivo per stare insieme. Venivano meno il potere e l’anticomunismo, la personalizzazione della leadership non permetteva più partiti a guida collegiale, senza capi riconosciuti, anzi, avversati.
I moderati della prima fase repubblicana sparivano, al loro posto arrivava un elettorato prima rabbiosamente radicale nella difesa dei propri interessi, poi radicalmente rabbioso con lo stato e con la politica. Come aveva previsto Mino Martinazzoli, già nel 1989, «noi democristiani che abbiamo vinto contro chi credeva nel tutto della politica rischiamo di essere sconfitti da chi agita il nulla della politica».
Senza una seria riflessione, i cattolici hanno vissuto la lunga fase della Seconda repubblica da esuli nel deserto. Lo smarrimento è stato aggravato dalla lunga leadership ecclesiastica del cardinale Camillo Ruini che ha tenuto per sé la mediazione e il rapporto diretto con il potere politico, relegando il popolo cattolico nella sfera del sociale, a favore della destra. La classe dirigente che nasceva nelle associazioni è stata sostituita da figure benedette dall’alto (a partire da Berlusconi).
I cattolici democratici
Sul versante del centro-sinistra, dopo la fine della Dc, trent’anni fa, i cattolici democratici, co-fondatori dell’Ulivo e del Pd hanno faticato a ridefinire la loro identità. In alcuni casi hanno rifiutato la stagione del bipolarismo e del maggioritario, come ha fatto con coerenza e rigore morale un personaggio come Guido Bodrato.
In altri si sono rifugiati in uno spazio di corrente, con l’obiettivo di lucrare sull’utilità marginale che la posizione consentiva. Oggi anche questa seconda strada sembra esaurita, con l’assenza di trentenni-quarantenni in grado di raccogliere il testimone. Ritagliarsi per i cattolici democratici una identità confinata nel recinto disegnato dalle questioni etiche, con la difesa della libertà di coscienza quando si vota su materie sensibili come il fine vita, è una sconfitta della politica.
La libertà di coscienza è intangibile, ma è un metodo, i contenuti spettano invece alla fatica della politica. In Italia c’è una enorme questione democratica, con l’astensionismo, la sfiducia nella partecipazione, che diventerà più evidente se andrà avanti il progetto di riforma costituzionale che vorrebbe Giorgia Meloni.
Affidare tutto nelle mani di una sola persona è la risposta presidenzial-autoritaria, nel tempo delle guerre a pezzi. Le culture democratiche hanno il dovere di essere contemporanee, ovvero dentro questo tempo, questa crisi. Avanza una generazione, cresciuta nel nuovo secolo, con il pontificato di papa Francesco, che vive quotidianamente la pace, l’accoglienza, la solidarietà, la giustizia sociale e ambientale, il pluralismo delle scelte. Come è avvenuto nei tempi migliori, il fermento è prima nella società, confuso e caotico, poi arriverà il rapporto necessario con la politica. I cento fiori fioriranno, se troveranno ancora un campo in cui fiorire.
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