Daniela Preziosi e Tommaso D’Elia raccontano come è nato il loro documentario (qui la versione integrale), girato nella cittadina della Locride nell’estate 2020, alla vigilia dei giorni in cui il processo contro l’ex sindaco sarebbe entrato nella fase decisiva
L’estate 2020, alla vigilia dei giorni in cui il processo a Mimmo Lucano sarebbe entrato nella fase decisiva, siamo andati a Riace, una cittadina di duemila abitanti nella Locride, Calabria. L’idea iniziale era quella di raccogliere in forma estesa il suo racconto, la sua verità sulle vicende per cui affrontava il giudice – inizialmente una quindicina di capi di imputazione, fra cui truffa, abuso d’ufficio, associazione per delinquere –. La cronaca, sempre. Al racconto pubblico mancavano da chiarire alcune vicende specifiche su cui la versione di Lucano non ci sembrava chiara.
C’era anche da capire come e di cosa viveva ora, da ex faro dell’accoglienza, in quella piccola comunità dove era voluto rimanere dopo la caduta, lui che era stato il protagonista di un film di Wim Wenders, Il volo, omaggiato dagli amministratori progressisti in giro per il mondo (assai meno dai suoi colleghi italiani). In realtà la cosa che ci incuriosiva di più era verificare la reale esistenza del personaggio che di lui avevano costruito i media, e non solo quelli che gli erano apertamente ostili: militante, idealista, non abbastanza colto – associazione implicita con il fatto che esibiva un bell’accento calabrese popolare – magari anche genuino, incappato in quella serie di accuse per il fatto di essere troppo ideologico e altrettanto inesperto.
Un pasticcione, nel migliore dei casi. Un «fuorilegge» per tutti gli altri, secondo il titolo del libro-confessione dello stesso Lucano che sarebbe uscito di lì a poco. La cosa che ci sembrava più interessante era proprio quel suo aspetto da improvvisatore che non improvvisa. E cosa c’era davvero dietro e dentro quel modo di amministrare, il «Modello Riace», su cui i media andavano per impressioni, per pennellate suggestive, nella lode o nel disprezzo.
Per questo prima di andare da lui abbiamo provato a ricostruire le sue radici, la sua formazione. A Campobasso siamo stati accolti nel vescovado di monsignor Giancarlo Maria Bregantini, noto per il suo impegno contro la ‘ndrangheta, vescovo della Locride negli anni ‘90, poi trasferito da papa Benedetto XVI. «Se non ci fosse stato lui in quegli anni la mia Riace non sarebbe nata», ci racconterà poi Lucano. A Villa San Giovanni, affacciati sullo stretto dal monte del parco ludico-tecnologico ambientale Ecolandia, abbiamo conversato con il sociologo Tonino Perna, che ha incontrato un giovanissimo Lucano a Badolato nei primi anni 90, gli anni dello sbarco di una nave di fuggitivi curdi. Perna ci ha raccontato come nacque la rete che mise in piedi quella pioniera esperienza dell’accoglienza nelle case vuote del paesino abbandonato dai suoi emigranti.
Lì Lucano «prende lezioni» da Perna e dal Cric, il Centro Regionale d'Intervento per la Cooperazione, una pioniera ‘Ong’. Conosce la solidarietà fattiva della comunità anarchica di Longo Mai in Provenza. Dopo averci raccontato delle vicende del passato, Perna disegna la costellazione dell’accoglienza nella Calabria di oggi, la Rete dei comuni solidali, il Progetto Spartacus, le associazioni che si adoperano per i braccianti. Per questo ci ha comandato un’arrampicata a Sant’Alessio in Aspromonte per parlare con il giovane medico Luigi De Filippis, a capo di una serie di progetti di progetti Sai (Sistema di accoglienza e integrazione, ex Sprar), e responsabile sanitario del progetto Bethel nella piana di Gioia Tauro. Antonella Attinà e Laura Sammarco, coordinatrice e la mediatrice progetto Sai – due giovani donne che hanno trovato nel progetto l’occasione di non emigrare -, ci hanno fatto aprire le porte delle case dei rifugiati. Per capire come funzionava, abbiamo stoppato le camere e ci siamo seduti al bar del paese. Il sindaco Stefano Ioli Calabrò, vigile urbano e cattolico praticante, ci ha parlato dell’accoglienza accoglienza diffusa e del patrimonio immobiliare non utilizzato a causa dello spopolamento, e della sua soddisfazione: «Aver sottratto alla schiavitù qualcuno è un’esperienza che segna ogni vita, anche quella di un amministratore».
Grazie a De Filippis siamo poi potuti scendere nell’inferno di Rosarno, nel campo legale, si fa per dire, e nelle baraccopoli. Poi risaliti a Cittanova, dove Maria Pia Tucci della Comunità Progetto Sud di don Giacomo Panizza ci ha raccontato come è stata costruita nel tempo una rete di gruppi che fanno politiche inclusive, impresa sociale, contrasto concreto alle ‘ndrine. Don Giacomo vive sotto scorta, un mese fa la comunità ha ricevuto nuove minacce.
Solo alla fine siamo approdati a Riace. Quello che ci ha raccontato Lucano delle sue radici è nel documentario che trovate linkato qui di seguito. In queste ore succede che le accuse contro di lui in aula si sgonfiano. E nel frattempo scopriamo che come i cronisti che in quegli anni lavoravano sull’immigrazione, anche quelli che lavoravano sulla vicenda Lucano venivano intercettati da inquirenti imbeccati che andavano a caccia di fonti e reati fantomatici. Le indagini, i processi e persino le ispezioni del ministero di Giustizia faranno il loro percorso. A noi non si stacca di dosso l’impressione che nel caso di cui parla Lucano, magistrati e funzionari dello stato compiacenti volessero non solo, non tanto, smontare il modello di accoglienza che si praticava a Riace, ma dare una lezione definitiva anche tutta la lunga storia, lo studio, la carica di realismo e di visione di cui quel modello è figlio.
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