La politica regionale è sempre più regionale e sempre meno politica: al posto dei partiti spadroneggiano presidenti trasversali, carismatici e talvolta fuori controllo
- Alle regionali hanno vinto i presidenti carismatici e indipendenti dai loro partiti
- È un trend che va avanti da tempo, ma ora ha raggiunto proporzioni estreme
- Il risultato è che il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, è l'unico politico di rilevanza nazionale arrivato dalla presidenza di una regione negli ultimi venticinque anni
Le elezioni regionali hanno confermato che la politica italiana è sempre più dominata da figure locali, indipendenti dai loro partiti sia tatticamente che ideologicamente. I presidenti di regione vincenti sono carismatici, forti di un consenso trasversale nei loro territori, ma quasi mai dotati di vaste e complesse visioni politiche.
«Contano sempre meno i partiti, sempre più i leader», dice Giovanni Diamanti, consulente politico e fondatore dell’agenzia Quorum e di YouTrend, «Zaia, De Luca, ma anche Toti e Emiliano: esempi di leader forti, oltre i partiti che li sostengono». Le ultime elezioni sono state un caso estremo di questo fenomeno, anche a causa della pandemia. «È aumentata la solidarietà verso chi governa, e ci si è affidati a leader forti, affidabili», dice Diamanti.
In Veneto, ad esempio, la lista del presidente uscente, Luca Zaia, ha raccolto 915mila voti, il triplo della lista della Lega. Come presidente, Zaia ha ricevuto ben 300mila voti in più di tutte le liste che lo appoggiavano. In Campania, il presidente della regione, Vincenzo De Luca, ne ha ottenuti 1,7 milioni, di cui poco meno di 400mila sono arrivati dal suo partito, il Pd, mentre altri 300mila dalla sua lista personale.
In Puglia, il presidente Michele Emiliano ha ottenuto 870mila voti, di cui circa 290mila sono arrivati dal suo partito, e quasi 250 mila dalle liste che portavano il suo nome. Come candidato presidente ha raccolto 110mila voti in più della somma delle liste che lo sostenevano. In Liguria, la lista del presidente, Giovanni Toti, ha raccolto 141mila voti, battendo il suo principale partner di coalizione, la Lega, che ne ha presi solo 100mila. Come candidato ha raccolto 30mila voti in più del totale delle liste a lui collegate.
I leader regionali hanno vinto imponendo i loro candidati e le loro liste, su cui in genere le segreterie centrali hanno avuto poca possibilità di intervento. De Luca in Campania ha riempito le sue liste di ex membri del centrodestra locale, come ha raccontato Nello Trocchia in queste pagine. In Puglia, Michele Emiliano ha raccolto alleati persino nell’estrema destra.
«De Luca formalmente è del Pd ma di fatto si è imposto come candidato a un partito che non lo ama e ha messo in piedi una coalizione trasversale tutta personale, ben radicata nel territorio, e non sempre nel senso migliore del termine. Emiliano dal Pd si è addirittura scisso, e ha vinto tenendo insieme trotzkisti e neofascisti», dice Lorenzo Zamponi, ricercatore di sociologia alla Scuola Normale Superiore di Pisa.
Il sistema elettorale «ultrapresidenziale» delle regionali, come lo definisce Zamponi, in cui l’elezione del presidente è diretta e la maggioranza automaticamente garantita in caso di vittoria, dà ai presidenti di regione un potere considerevole, che spesso utilizzano per creare vaste reti clientelari.
Secondo Daniele Albertazzi, politologo dell’università di Birmingham, si tratta di un fenomeno a cui in Italia si assiste almeno dalla nascita della cosiddetta Seconda repubblica, a metà degli anni Novanta. «Un processo di personalizzazione della politica in cui il leader o candidato acquista grande visibilità a discapito dei partiti che lo sostengono, e delle loro proposte e identità», dice. Si tratta di una situazione a cui hanno contribuito molti fattori, dai mutamenti sociali all’arrivo dei nuovi media. «La debolezza dei partiti, esacerbata dal venire meno della lealtà di classe e di religione, fa il resto», dice Albertazzi.
Il risultato è che è sempre più facile vedere scontri tra presidenti di regione e i loro partiti, o vederli adottare politiche differenti e persino opposte a quelle di presidenti dello stesso partito, ma che governano altre regioni. In Campania, De Luca ha giocato buona parte della sua risposta al Covid-19 sul costante conflitto con il governo, nonostante il suo partito appartenga alla coalizione che lo sostiene.
In Veneto, Zaia ha gestito l’emergenza in maniera del tutto indipendente, seguendo una strategia basata sulla sanità pubblica della sua regione, su dure norme di contenimento del virus e su un’estesa operazione di tracciamento dei contatti, l’opposto di quanto predicato dal suo partito a livello nazionale e nella vicina Lombardia, dove è stato esaltato il ruolo della cura ospedaliera e si è praticamente rinunciato al tracciamento dei contatti che aveva così successo in Veneto. In Lombardia, inoltre, il sistema sanitario è in buona parte privato, all’opposto di quello quasi completamente pubblico del Veneto.
La pandemia ha mostrato chiaramente che la politica regionale è sempre più regionale. Non ci sono ideologie a tenerla unita oltre i confini, ma nemmeno visioni comuni della società. Le regioni non sono laboratori dove applicare nel piccolo quello che il partito nazionale fa nel grande. Sono diventate invece un agone di figure che raccolgono ogni tipo di consenso purchessia, e lo fanno con il beneplacito più o meno consenziente delle segreterie di partito. Anche perché, ogni elezione regionale si è trasformata in una prova di condanna o di salvezza per il governo in carica. Di conseguenza, le regioni non sono nemmeno vivai o incubatrici di talenti, ma luoghi dove i presidenti più abili si insediano, continuano a vincere e a volte lo fanno per decenni, fino a che un’inchiesta o uno scandalo non li rovescia. «Quanti leader nazionali sono usciti dalle regioni?», si domanda Zamponi, «Per ora solo Zingaretti, in un quarto di secolo».
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