Partita con le migliori intenzioni, l’alleanza tra Pd e M5s si sta rivelando un matrimonio infelice: poco alla volta, bisogni e strategie delle due forze politiche si sono scollate, e con la mossa sulle spese militari Conte alza il livello dello scontro nei prossimi mesi
L’iniziativa di Giuseppe Conte sulle spese militari ha aperto un nuovo fronte all’interno dell’alleanza tra Movimento 5 stelle e Partito democratico. Ieri alla fine il leader del Movimento ha fatto rientrare la crisi dopo essere salito al Colle, ma nel cosiddetto “campo largo” in tanti temono che non sarà l’ultima volta da qui alla fine della legislatura che Conte punterà i piedi.
Il Def
Il primo e più importante ostacolo sulla via dell’alleanza giallorossa è il Documento di economia e finanza, che dovrebbe arrivare in aula già la settimana prossima. Il testo, che è il primo passo del percorso che porterà a fine anno alla stesura della legge di bilancio, secondo quanto ha anticipato il presidente del Consiglio Mario Draghi non conterrà indicazioni sulla spesa militare. «Non è prevista indicazione di spese militari o altre spese», ma perché «il Def è un documento complessivo» ha detto in conferenza stampa.
Conte negli ultimi giorni si era gloriato di aver fatto rimuovere dal Def l’indicazione delle spese militari, ma in realtà non erano state previste fin dall’inizio. Una volta trovato l’accordo sul raggiungimento del traguardo di spesa militare pari al 2 per cento del Pil nel 2028, l’ex premier ha voluto rilanciare chiedendo a Conte di condividere le iniziative per assistere imprese e famiglie nel paese «che sta soffrendo», come ha raccontato d’aver detto anche al presidente della Repubblica. Insomma, è quasi certo che la proposta di allocazione delle spese proposta dal governo sarà messa in discussione dal Movimento 5 stelle.
Un aumento del livello di tensione che preoccupa gli alleati del Pd, che faticano a rispettare l’indicazione del segretario Enrico Letta di non alzare i toni. A rimanere più indigesto ai dem è proprio il fatto che alla fine la soluzione di compromesso sia stata trovata grazie al ministro della Difesa Pd Lorenzo Guerini.
Gli inizi
Non è la prima volta che Conte si muove in maniera imprevedibile e scontenta gli alleati. Dai tempi in cui Nicola Zingaretti, predecessore di Letta, a fine 2019 definiva Conte «fortissimo punto di riferimento dei progressisti» è passata parecchia acqua sotto i ponti. E a sinistra, ormai, l’unica figura di spicco rimasta al suo fianco è l’eminenza grigia Goffredo Bettini, da sempre suo grande sponsor. All’epoca le intenzioni erano buone, Conte era forte del controllo di palazzo Chigi e il Pd puntava alla realizzazione di un’alleanza larga, che andasse dalla sinistra a Italia viva: di qui la speranza di metà 2020 del leader del Movimento di allearsi anche su base regionale, pena «una sconfitta per tutti noi».
I primi segnali del fatto che il campo largo fosse difficile da tradurre in realtà sarebbe arrivato sei mesi dopo, con la caduta del governo Conte II: lo screzio tra il premier uscente e Matteo Renzi, che aveva sottratto il suo sostegno, non si sarebbe mai più sanato. A rimanere schiacciato in mezzo allo scontro era stato proprio il Pd, che aveva assistito in quel contesto all’addio di Zingaretti.
Anche con l’arrivo di Letta, i rapporti inizialmente erano stati promettenti: «Conte e il suo M5s saranno un interlocutore privilegiato». Era il 24 marzo 2021, quando il primo incontro tra i due leader era stato consacrato da una foto di fronte a una mappa del mondo. Una corrispondenza d’amorosi sensi a cui Conte replicava spiegando che «chi va da solo è meno efficace».
Gli screzi
Poi, accompagnato da un pesante calo nei sondaggi per il M5s e un timido e poi sempre più sostanzioso incremento per il Pd, i rapporti si sono incrinati. L’estate 2021 è dominata dalla discussione sulla riforma della giustizia, su cui Conte polemizza di nuovo e minaccia lo strappo. Il Pd riesce a mediare, alla fine il quadro si ricompone.
Prima dell’autunno, invece si discute sulla linea per le amministrative di settembre, su cui il Movimento ha voluto continuare a difendere l’operato delle sindache uscenti di Torino e Roma, con Virginia Raggi che, ricandidandosi al Campidoglio, aveva permesso all’alleanza giallorossa di sostenere un candidato comune soltanto al secondo turno.
Anche a Napoli e Bologna, i due cavalli di battaglia che Conte cita spesso per avvalorare l’efficacia dell’alleanza, gli attivisti del Movimento non si sono sentiti coinvolti, percependo i candidati proposti da Roma come calati dall’alto. Strade diverse anche per le suppletive di Roma Primavalle e Siena: mentre il segretario dem ha sfruttato il collegio toscano per tornare in parlamento e gestire in prima persona i problemi del gruppo alla Camera, Conte ha rinunciato a candidarsi a Roma nord.
Stesso discorso per il collegio di Roma 1 che il Pd gli aveva proposto dopo l’elezione di Roberto Gualtieri al Campidoglio: anche a gennaio 2022 Conte avrebbe avuto a disposizione una strada spianata per tornare in parlamento, ma pure in questo caso l’ex premier ha scelto di declinare l’invito.
Poi, a fine mese, il grande conflitto sull’elezione del presidente della Repubblica. Un’occasione in cui Conte ha colto più volte di sorpresa gli alleati dem rispolverando l’antica intesa con la Lega nel tentativo di lanciare il nome di Elisabetta Belloni, la capo dei servizi segreti, mentre il Pd stava già pensando alla ricandidatura di Mattarella.
Una lunga serie di screzi interni che si riverbera oggi anche nelle parole: «Se il Pd sarà al nostro fianco ci farà piacere, altrimenti ne prenderemo atto» ha detto questa settimana Conte, anticipando la sfida di ieri. Il messaggio è chiaro: l’ex premier vuole essere considerato alla pari, esige «rispetto». E ora la palla passa al Pd.
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