- Nel suo libro Ilda Bocassini racconta nel dettaglio il viaggio (giugno 1991) che Falcone e lei compiono da Roma a Buenos Aires, per interrogare (e possibilmente estradare) tale Gaetano (Tanino) Fidanzati, boss del narcotraffico di Cosa Nostra con base a Milano.
- A quell’epoca Falcone è ormai un dirigente del ministero di Giustizia. Perché si imbarca in un viaggio del genere?
- Tutta la trasferta argentina finì in niente, ma Boccassini ha il sospetto che questo abbia a che fare con la morte di Giovanni Falcone.
Ilda la rossa.
E’ il libro del momento, non si parla d’altro. E’ un libro “diverso”, perché non sappiamo se né lei, l’autrice, né noi – lettori, lettrici – ne usciremo indenni.
Si chiama La stanza numero 30 (il suo ufficio in quell’orribile e sempre più opaco Palazzo di Giustizia di Milano) ed è scritto da Ilda Boccassini, andata in pensione con il grado di procuratore aggiunto e accompagnata dalla fama; “Ilda la Rossa”, che è stata sulle copertina di Time; unica donna magistrato in Italia che non si è tirata indietro di fronte alla mafia, che ha sfidato – vincendo spesso – il potere di Silvio Berlusconi, sul versante finanziario (Sme Mondadori), che sul versante privato (le olgettine).
Napoletana di nascita, esagerata, con i capelli rossi («sempre stati tinti, con l’ennè», i suoi erano un banale castano – lo rivela lei), Boccassini è sempre stata tutto l’opposto di quello che dovrebbe essere un pubblico ministero, ovvero riservato, prudente, distaccato.
Boccassini è piuttosto il ritratto della donna passionale, istintiva, selvaggia; una donna cui piace amare, prendere gli elicotteri, viaggiare di notte e fare qualcosa di importante e pericoloso. Se fosse stata un film partenopeo sarebbe stata Filomena Marturano, se fosse stato capitolino, Anna Magnani. Lei, invece, che ha sense of humour, si ritrova nella definizione «un po’ Maria Goretti, un po’Fantozzi».
Ma, vi assicuro, se appena vi immergete nel libro, sarà difficile mollarlo. Vi troverete anche voi a vivere in un western di amori, vendette, servizi segreti, doppi agenti, funzionari torbidi, colleghi infidi… molto infidi. Buon per Ilda che non abbia mai avuto una 7,65 nella borsetta: l’avrebbe usata volentieri sui colleghi machi.
La stanza numero 30, volendolo definire, appartiene al genere della “memorialistica quasi istantanea” che tanti danni ha fatto agli alberi dell’Amazzonia. Le persone, più o meno famose, o rese famose dalla cronaca o dalla televisione, scrivono la loro vita.
I magistrati sono grandi utenti del genere. Siccome i tempi che viviamo li hanno resi protagonisti, siamo stati invasi negli ultimi decenni da biografie di magistrati integerrimi, di magistrati che si sono sacrificati per la legalità comune, che hanno rischiato la vita, che sono stati minacciati di morte della mafia, dalla ‘ndrangheta, dalla camorra, che hanno scovato criminali irraggiungibili , anche se poi in realtà stavano sotto casa.
Sono in genere storie edificanti, ma, purtroppo, terribilmente noiose. «Quel giorno che interrogai un pentito e mi disse: dottore, io avevo avuto ordine di ucciderla…» è un espediente usato molte volte, come il “salto dello squalo” utilizzato dalle serie tv americane di trent’anni fa, quando la trama stava vivacchiando. E siccome, da trent’anni nessun magistrato è stato ucciso, viene da pensare che il furbo pentito di turno lo faccia per far provare un brivido al magistrato.
Altro momento topico della memorialistica giudiziaria è “l’incontro con Falcone (o Borsellino) che mi cambiò la vita”. Declinato in diverse maniere, in genere tutte suggestive; in genere, esagerate. E’ stata una vasta produzione, che ci ha dato nel tempo indimenticate memorie di Caselli, Ingroia, Scarpinato, Grasso, Cantone, Sabella, Imposimato, Priore, Di Matteo, Gratteri (lui veramente bulimico), Di Pietro (per interposte schiere di giornalisti, perché lui ha sempre avuto difficoltà di scrittura), De Magistris, con un minimo denominatore: la glorificazione di se stessi e l’avanzata delle loro carriere, in magistratura e in politica. Erano diventati tutti degli “influencer” potenti (altro che Chiara Ferragni), decidevano delle nomine al Csm…
Poi – nel circuito - arrivò quella “faccia da tonno” (definizione del presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga), l’ormai famigerato Luca Palamara, che svelò di che cosa parlano veramente i magistrati quando parlano tra di loro: solo di carriere, di potere.
Ilda la bomba
Ecco, il libro di Ilda Boccassini arriva in questo momento storico: tra “il salto dello squalo” e Luca Palamara. Chiude un’epoca e cambia il registro, con un colpo di scena di una grande drammaturgia.
Signori, dice Ilda, io amavo Giovanni Falcone – e lui amava me. Io ho condiviso con Giovanni Falcone intimità, segreti e destino. Io non sono Pasolini, ma, come lui, So. Sicuramente non tutto, ma so abbastanza. So come sono andate le cose. So perché è stato ammazzato, ed è per quello di ineffabile aveva scoperto. Penso anche di sapere chi l’abbia tradito, e sono stati principalmente i suoi colleghi. Un’altra cosa però posso dirvi: io non dimentico, l’ho promesso al mio amore, accarezzando il suo viso all’obitorio di Palermo – «dove Giovanni era stato lasciato solo». Troverò i suoi assassini; farò vendetta.
Il libro di Ilda Boccassini è ora al centro della conversazione collettiva, principalmente per una ragione: lei ha rivelato la sua relazione amorosa con l’Eroe, un uomo sposato, la cui moglie, Francesca Morvillo, perì con lui nell’attentato di Capaci. Perché l’ha fatto? Borghesuccia, madame Bovary, narcisa, priva di rispetto per la povera Morvillo… no, coraggiosa, onesta: mettete il like su cosa desiderate… Ma vi invito anche a leggere il libro; vi troverete, nei dettagli soprattutto, l’enormità della tragedia mentre sta succedendo, e un respiro di assoluta verità che meriterebbe la Storia, perlomeno televisiva.
Il capitano Ultimo che porta su una jeep Ilda Boccassini atterrata a Palermo la sera di Capaci, ma impossibilitata a raggiungere la camera mortuaria del suo amore. Il silenzio della morte, il ritorno a Milano e la sua comparsa – Ray ban neri, Erinni, Antigone. Marcantonio sul cadavere di Cesare - nella ipocrita cerimonia di un Falcone che, a Milano come a Palermo, non era mai stato amato.
Indagini da approfondire
La stanza numero 30 offre notizie e spunti di curiosità sulla storia – perlomeno quella giudiziaria – dei nostri ultimi quarant’anni; impossibili elencarli tutti, ma troverete tratti irriverenti su personaggi molto sussiegosi. Molti, soprattutto i cultori della materia, troveranno nel libro una loro petite chose. Io ne ho trovate tante, ma su una in particolare vorrei soffermarmi.
Boccassini racconta nel dettaglio il viaggio (giugno 1991) che Falcone e lei compiono da Roma a Buenos Aires, per interrogare (e possibilmente estradare) tale Gaetano (Tanino) Fidanzati, boss del narcotraffico di Cosa Nostra con base a Milano. A quell’epoca Falcone è ormai un dirigente del ministero di Giustizia. Perché si imbarca in un viaggio del genere?
Spiega Boccassini nel libro che Fidanzati (un vero boss arrivato al vertice internazionale del traffico di eroina, e nello stesso tempo ben inserito nella vita quotidiana di Milano) era un possibile “nuovo Buscetta” che avrebbe potuto dare la svolta alle indagini del potere mafioso sull’asse Palermo Milano. Cito, da pagina 27:
“Le indagini su Fidanzati erano condotte in comune con Giovanni Falcone. Il latitante era stato individuato, si muoveva tranquillo in Argentina ed era in contatto sia con trafficanti di droga di altissimo livello sia con esponenti di Cosa nostra, non ancora sfiorati o non sufficientemente presenti nelle indagini tanto da consentirne la cattura. L’indagine, coordinata da me, aveva acceso un faro su un personaggio di grande interesse per i suoi spericolati legami con i servizi segreti, con la massoneria e con il mondo criminale dei colletti bianchi, insomma uno che faceva il doppio-triplo gioco come fonte dei servizi mentre era sotto osservazione da parte della polizia”.
Tutta la trasferta argentina finì in niente, ma Boccassini ha il sospetto che questo abbia a che fare con la morte di Giovanni Falcone.
Certo, riguardando la cronologia le date sono suggestive, e un poco disturbanti. Nel giugno 1991 Falcone stava conducendo indagini sui legami tra Cosa Nostra e i potentati economici di Milano e considerava molto importante Gaetano Fidanzati.
Per questa inchiesta si fidava solo di Ilda Boccassini, che stava gestendo un grosso processo sulla dominazione economica finanziaria della mafia Milano, città che aveva già assistito ai crack di Michele Sindona e del Banco Ambrosiano. Terreno d’inchiesta scottante, che però si fermò dopo l’assassinio di Falcone.
Seguì, inaspettatamente – e spettacolarmente – la stagione di Mani Pulite; in cui la mafia a Milano scomparve per essere sostituita da un banale giro di tangenti sulle forniture di sanitari al Pio Albergo Trivulzio.
Ilda Boccassini fu presa in mezzo a tutto ciò. E lo racconta, con la sincerità della nonna che vuole lasciare detto, perché i nipoti sappiano.
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