La giornalista Nancy Porsia ha letto le carte dell’inchiesta della procura di Trapani nell’ambito della quale è stata intercettata e pedinata per sei mesi. Anche se di Ong si è occupata ben poco. Ma aveva informazioni e fonti che mettevano a rischio la narrazione ufficiale di quello che succedeva in Libia
- Nel 2017 per sei mesi la procura di Trapani che indagava sul ruolo delle Ong nei soccorsi in mare intorno alla Libia ha messo sotto intercettazione la mia utenza telefonica.
- Il pm chiede l’immediato accesso alla mia utenza telefonica, perché un eventuale ritardo avrebbe potuto compromettere lo sviluppo delle indagini in corso.
- Ma dopo sei mesi di intercettazioni e pedinamenti, nessuna delle informazioni registrate finisce nell’informativa finale depositata lo scorso febbraio dalla Procura di Trapani e su cui verrà istruito il processo.
Nel 2017 per sei mesi la procura di Trapani che indagava sulle Ong che fanno ricerca e soccorso in mare al largo della Libia ha messo sotto intercettazione la mia utenza telefonica. Non solo, ha anche controllato i miei spostamenti con tecnologia Gps.
Eppure io non ero né indiziata né indagata. L’allora pm Andrea Tarondo di Trapani scrive che, in una conversazione tra persone indagate di Medici senza frontiere, era stato fatto il mio nome e che io dunque avrei avuto informazioni sensibili su presunti illeciti commessi dai volontari dell’Ong in mare.
Il pm chiede l’immediato accesso alla mia utenza telefonica, perché un eventuale ritardo avrebbe potuto compromettere lo sviluppo delle indagini in corso. Facendo appello all’articolo 266, comma 2, del codice penale, che consente di intercettare soggetti non indagati, la procura chiede l’avvio delle intercettazioni.
Ma dopo sei mesi di intercettazioni e pedinamenti, nessuna delle informazioni registrate finisce nell’informativa finale depositata lo scorso febbraio dalla procura di Trapani e sulla base della quale verrà istruito il processo.
Lo stesso procuratore di Trapani, Maurizio Agnello che ha ereditato il fascicolo sulle Ong quando è subentrato nel 2019 nella procura siciliana, dice oggi che «nella informativa riepilogativa dell’intera indagine non c'è alcuna traccia delle trascrizioni delle intercettazioni della giornalista Nancy Porsia».
Molti altri colleghi sono stati intercettati nel corso delle indagini della procura di Trapani, ma soltanto perché al telefono con persone già indagate. Fatto comunque grave, ma soltanto nel mio caso, per sei lunghi mesi, il pm ha fatto richiesta ogni quindici giorni di autorizzazione per intercettare una giornalista non indagata. Il giudice per le indagini preliminari ha sempre acconsentito.
Quale “assoluto rilievo”?
Com’è possibile che la magistratura abbia violato il mio diritto alla privacy di libera cittadina e quello alla tutela delle fonti come giornalista, adducendo «elementi di assoluto rilievo investigativo acquisiti» per un periodo così lungo, se poi delle informazioni a me “estorte” non vi è traccia nell’informativa finale?
Io credo di avere una risposta. Le informazioni che gli inquirenti cercavano non riguardavano le Ong, tema di cui io mi sono occupata in modo marginale.Volevano sapere che cosa io avessi in mano sulla Libia.
Le indagini della procura di Trapani su Juventa, Medici senza frontiere e Save the Children, sono state coordinate dal Servizio Centrale Operativo (Sco), ossia polizia giudiziaria a Roma che fa capo al ministero degli Interni. Correva l’anno 2017 e al Viminale c’era Marco Minniti.
Subito dopo essere diventato ministro dell’Interno nel governo Gentiloni, il 12 dicembre del 2016, Minniti ha licenziato una lunga informativa dal titolo Attività di analisi dei flussi migratori in Italia autorizzata dalla Sco, proprio mentre sulle pagine di Panorama usciva la mia inchiesta sul traffico di esseri umani in Libia e il coinvolgimento di alcuni ufficiali della Guardia Costiera libica, portando per la prima volta davanti all’opinione pubblica il nome di Abdul Rahaman Al Milad, detto Bija.
Al momento della pubblicazione dell’inchiesta su Bija, io ero ancora in Libia. L’intelligence locale mi ha subito informato di un piano di rapimento ai mie danni lungo la strada verso Tripoli che passa per Zawiya, la città dell’ufficiale al centro della mia inchiesta.
Mi hanno quindi evacuato verso verso la capitale, e da lì mi sono spostata a Sirte per raccontare la fine dello Stato Islamico nella sua enclave libica. Nel frattempo la pressione delle attività libiche era diventata insopportabile. Sono uscita dal paese a metà dicembre del 2016, e da allora non ho più ricevuto il visto per anni. Sono finita in una blacklist, mi dicono.
Bija a Roma
Minniti a Roma era impegnato a fermare gli arrivi di migranti dalle coste libiche, questione prioritaria per il governo Gentiloni. Il fatto che la Libia fosse ormai diventata uno “stato fallito”, con due governi, due parlamenti, in piena guerra civile era un dettaglio trascurabile nella narrativa ufficiale. Tuttavia toccava preservare la reputazione dei militari in mare che avrebbero ricevuto mezzi e sostegno da parte del Viminale per espletare il delicato compito di controllare la frontiera a sud dell’Europa.
La mia inchiesta uscita a fine dicembre su Bija poteva creare problemi alla versione accreditata del Viminale. Così come quella che ho pubblicato a febbraio 2017 su TRT World in inglese.
Tuttavia a maggio del 2017 Bija viene accolto a Roma tra i membri della delegazione libica. Questo è l’evento di cui ha poi scritto il collega Nello Scavo di Avvenire nell’ottobre del 2019, quando ha pubblicato la foto di Abdul Rahaman Al Milad, Bija, nel centro Cara di Mineo con le autorità italiane.
Io all’epoca dei fatti non ho denunciato l’arrivo di Bija in Italia, sebbene ne fossi al corrente, perché speravo in una distensione nei rapporti tra me e le autorità libiche così da tornare a raccontare il paese dal campo.
Un paio di settimane dopo, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha inserito nel suo report annuale sulla Libia le accuse contro il guardacoste Abdul Rahamn Al Milad, Bija, citando la mia inchiesta. Due giudici dell’Aja sono venuti a Roma per interrogarmi.
Interrogata e intercettata
Ho continuato a lavorare sulla mia inchiesta sulla Guardia Costiera libica e la cooperazione con l’Italia sul fronte migratorio, quella avviata da Minniti. E’ in quella fase che, non potendo entrare in Libia, ho deciso di salire a bordo di una delle navi delle Ong impegnate al largo delle coste libiche.
Mi sono imbarcata sulla Vos Prudence il 14 giugno del 2017, il 19 giugno ero già a terra, a Reggio Calabria, dove ho consegnato alla polizia giudiziaria - su loro richiesta – una copia del mio materiale audiovisivo. Nei giorni successivi ho pubblicato i miei reportage in Italia e all’estero, poi sono tornata a lavorare sulla mia inchiesta sul coinvolgimento degli ufficiali libici nel traffico di esseri umani e le loro coperture politiche tra Tripoli e Roma.
Ero già intercettata e pedinata quando nel luglio del 2017 ho incontrato il Ministro Minniti a Tunisi, dove all’epoca vivevo, in occasione di un summit dei ministri degli Interni europei sulla collaborazione nel Mediterraneo. Alla fine dei lavori, Minniti ha risposto alle domande di tutti i cronisti, ma quando è arrivato il mio turno, io mi sono presentata e lui ha immediatamente posto fine alla conferenza stampa e se n’è andato, lasciando l’intera platea sbigottita.
Mentre ero intercettata, sono stata convocata come persona informata sui dallo Sco a Roma, nell’agosto del 2017. Ho messo disposizione degli inquirenti tutte le informazioni in mio possesso. Oggi so per certo che all’epoca sapevano che la mia vita era in pericolo, ma anziché proteggermi, mi intercettavano.
Nonostante non ci fosse attinenza tra le informazioni che io raccoglievo e il ruolo delle Ong di cui la magistratura siciliana indagava, oggi mi chiedo per quale motivo siano state allegate all’informativa finale e depositati i brogliacci con le trascrizioni delle mie intercettazioni se non vi è alcuna rilevanza ai fini dell’istruzione del processo? E perché sebbene siano documenti secretati sono stati resi pubblici?
E’ evidente che chi lavora da battitrice libera sul campo in territorio di strategico interesse nazionale come la Libia sia oggetto di attenzioni. Ma viviamo in uno stato di diritto, e io oggi vorrei delle spiegazioni. Non solo a mio nome, ma a nome delle mie fonti e della tutela del diritto all’informazione.
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