La vittoria netta alle amministrative ha scaldato i cuori degli elettori di centrosinistra e galvanizzato quelli dei dirigenti del Partito democratico. L’idea che è il progetto di partito del segretario Enrico Letta, neoeletto alla Camera nel collegio di Siena, sta funzionando e ora bisogna solo mettere il turbo sulla spinta aggregatrice: verso un «nuovo Ulivo» per dirla con Letta, che comprenda i Cinque stelle ma si allarghi anche oltre.

Ma quando si parla di coalizioni la mente corre inevitabilmente alla legge elettorale.

Eterno argomento di discussione soprattutto dopo una tornata elettorale, in questo caso si riaffaccia per una ragione pratica: l’attuale legge va modificata, se non altro perché il taglio del numero dei parlamentari impone almeno di ridisegnare i collegi. Per ora si tratta solo di dibattito politico interno, il cui volume si è alzato come sempre succede dopo un successo elettorale. Non esistono proposte di legge scritte e tutto si collocherà dopo l’elezione del nuovo presidente della repubblica.

Tuttavia nel Pd unito dai successi nelle grandi città le fazioni sono due, travalicano le tradizionali correnti e hanno orientamenti opposti.

Il maggioritario

La maggior parte degli esponenti dem predilige il sistema maggioritario. I due teorici sono il deputato e costituzionalista Stefano Ceccanti e il senatore Dario Parrini: da sempre sostenitori di una legge elettorale sullo stampo di quella dei comuni, sarebbero al lavoro per trovare una formula che favorisca le coalizioni pre-elettorali.

Per dirla con Ceccanti, il principio deve essere quello del «cittadino arbitro sui governi», possibile solo se le coalizioni si formano prima del voto e non in parlamento tra i partiti. Questo schema, che gode dell’appoggio del padre nobile Romano Prodi, muove da un assunto: un ritorno al bipolarismo centrosinistra-centrodestra. Non a caso nel suo discorso post vittoria Letta ha parlato della necessità per il 2023 di costruire una «coalizione coesa e prendere il testimone da Draghi, modello Scholz in Germania con Merkel». La tentazione, allora, sarebbe quella di modificare l’attuale legge elettorale eliminando i collegi ma mantenendo la possibilità di creare coalizioni, aggiungendo magari un premio di coalizione che aumenti la governabilità.

A dare spinta a questa ipotesi ci sarebbe il successo alle amministrative: nel Pd ci si sta convincendo che il nuovo assetto di alleanza strutturale con i Cinque stelle, sommato al benefico influsso del governo Draghi e della ripresa economica, possano portare alla vittoria nel 2023.

Proporzionale

Nello stesso partito convivono anche dirigenti convinti esattamente dell’opposto. Questi sono addirittura spaventati che l’ubriacatura elettorale delle amministrative sia il preludio di uno schianto alle prossime politiche. «Un errore che abbiamo già commesso in passato», dice un deputato dell’area sinistra. Nella minoranza, la lettura dell’attuale quadro politico è esattamente ribaltata rispetto a quella di Ceccanti: nel centrodestra si sta aprendo una frattura profonda, il conflitto con Giorgia Meloni è definitivo e, vista anche la collocazione di Fratelli d’Italia all’opposizione, l’alleanza di fatto non esiste più. Il Pd dovrebbe inserirsi proprio in questa frattura per allargarla e non certo parlare di Berlusconi abile federatore, come ha fatto Letta.

Una legge proporzionale avrebbe il pregio di scardinare il centrodestra creando una competizione interna tra Meloni e Salvini, ma servirebbe anche al centrosinistra. Il pessimo risultato del Movimento 5 stelle alle amministrative e la previsione di un più che dimezzamento del consenso anche alle politiche, infatti, non dovrebbe incentivare il Pd a cercare un’alleanza a priori. «Che per di più indispettirebbe gli elettorati di entrambi», aggiunge un dirigente del Pd da sempre scettico sull’asse coi Cinque stelle e convinto che sia impossibile allargare «oltre il Pd», come dice Letta, in un abbraccio che va dai grillini ad Azione di Carlo Calenda.

La soluzione sarebbe una legge elettorale proporzionale, che valorizzi le scelte degli elettori e poi consegni nelle mani dei partiti – correttamente rappresentati in parlamento – l’onere di individuare il governo e le forze che lo sosterranno. «Del resto, è con questa formula che è nato l’attuale governo. Volere una legge che favorisce coalizioni precostituite significa ritenere il governo Draghi, nato sulla base di accordi successivi tra partiti, un’eccezione irripetibile».

Fattore Draghi

La linea prevalente nel Pd è quella favorevole a non modificare l’attuale legge elettorale, se non il minimo necessario. L’ago della bilancia sarà il segretario Letta ma il suo orientamento sembra chiaro: la vittoria alle amministrative l’ha convinto a puntare sul ruolo egemonico del Pd in una coalizione ampia, che attiri nell’orbita dai Cinque stelle a Italia viva ad Azione e chissà, forse anche pezzi di Forza Italia in fuga dal sovranismo.

Il centrodestra rimane alla finestra. Nella compagine di governo, il più possibilista per una legge proporzionale sarebbe Renato Brunetta, che non è disposto a “morire leghista”. Anche perché il proporzionale favorisce un’eventuale formazione di centro non disposta a fondersi nella Lega e pronta ad allearsi in una “maggioranza Ursula”, composta dal centrosinistra e dai popolari. Matteo Salvini, invece, è tutto preso dalle vicende interne al suo partito e ha sempre demandato ad altri di occuparsi di legge elettorale: come sempre al lavoro c’è Roberto Calderoli, stratega di alchimie elettorali, che starebbe lavorando a un progetto maggioritario parallelo a quello del Pd. L’unica speranza dei sostenitori del proporzionale, allora, siede a palazzo Chigi: «Solo un imprevisto può far cambiare rotta a Letta. Nella fattispecie, Draghi che gli faccia capire che, se nel 2023 il progetto è quello di proseguire sull’onda di questo governo, la legge elettorale va cambiata in senso proporzionale».

Difficile, ma tutto può succedere sulla strada per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.

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