- I vaccini che abbiamo a disposizione sono estremamente efficaci nell’evitare le forme gravi della malattia, questo è vero anche con la variante Delta.
- Chi si infetta ad almeno due settimane dal completamento del ciclo vaccinale sviluppa prevalentemente sintomi lievi, ma non è chiaro se e quanto sia contagioso.
- I dati relativi a un focolaio di 469 infezioni nella cittadina di Provincetown, nello stato del Massachusetts, sembrano indicare che il carico virale dei vaccinati che si infettano sia simile a quello dei non vaccinati che si infettano.
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A woman wearing face masks to protect against coronavirus walks with her children along the beach in Saint Jean de Luz, southwestern France, Tuesday, July 27, 2021.Local authorities in France are re-imposing mask mandates and other virus restrictions because of fast-growing infections with the delta variant, which is causing COVID-19 hospitalizations in France to rise again. (AP Photo/Bob Edme)
Mentre l’Italia entra ufficialmente nella quarta ondata e la variante Delta è ormai responsabile di oltre il 90 per cento dei nuovi contagi diagnosticati, l’andamento dell’epidemia nelle regioni del mondo con una campagna di vaccinazione avanzata è estremamente difficile da leggere.
L’elevata circolazione virale in Europa, negli Stati Uniti e in Israele sta rendendo sempre più visibili i casi di infezione post-vaccinale. In inglese si chiamano breakthrough infections, “infezioni di sfondamento”. Infatti, seppure i vaccini conferiscono un’armatura resistente al virus che causa Covid-19, questa armatura non è impenetrabile.
Che sia un’armatura estremamente resistente lo confermano i dati sulle ospedalizzazioni. L’ultimo bollettino dell’Istituto Superiore di Sanità ha rilevato che solo il 15 per cento delle 2115 persone ricoverate a causa di Covid-19 tra il 18 giugno e il 18 luglio negli ospedali italiani aveva completato il ciclo vaccinale. Se ci si limita alle persone tra i 12 e i 60 anni, questa percentuale scende al 4 per cento circa (50 persone), tra 60 e 79 anni è il 17 per cento (87 persone), sopra gli 80 anni è il 52 per cento (143 persone).
La differenza tra queste percentuali è dovuta a due fattori. Il primo è l’elevata copertura vaccinale raggiunta nella popolazione sopra i 60 anni (quasi il 60 per cento al 10 luglio) e in particolare sopra gli 80 anni (86 per cento). Tra 12 e 60 anni solo il 20 per cento aveva completato il ciclo vaccinale al 10 luglio. Il secondo fattore è che le persone sopra i 60 anni, e in particolare sopra 80, soffrono più frequentemente di altre patologie che concorrono ad aggravare il corso dell’infezione e hanno un sistema immunitario meno capace di reagire alla vaccinazione.
L’emergere di un numero sempre maggiore di infezioni post-vaccinali sta permettendo ai ricercatori di tutto il mondo di raccogliere informazioni importanti sull’immunità stimolata dai vaccini.
Martedì i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) statunitensi hanno raccomandato ai vaccinati di tornare a indossare la mascherina al chiuso, in un’inversione di marcia rispetto a quanto deciso a metà maggio. Giovedì il primo ministro israeliano Bennett ha annunciato l’avvio della campagna per la somministrazione della terza dose del vaccino Pfizer-BioNTech alle persone con più di 60 anni.
I vaccinati trasmettono il virus?
La decisione dei CDC è basata su un rapporto che documenta un focolaio di infezioni a Provincentown, un paese di meno di 3mila abitanti sulla baia di Cape Cod, nello stato del Massachusetts. Il rapporto suggerisce che le persone vaccinate che si infettano sarebbero in grado di trasmettere il virus tanto quanto quelle non vaccinate che si infettano.
Alla fine di luglio, tra i residenti dello stato sono stati identificati 469 contagi collegati a una serie di eventi sia all’aperto che al chiuso che si sono svolti nel piccolo paese all’inizio del mese e che hanno attirato migliaia di turisti.
Di queste infezioni, circa tre quarti (346) si sono verificate in persone che avevano completato il ciclo vaccinale almeno due settimane prima. Confrontando il carico virale rilevato in 127 vaccinati e 84 non vaccinati, sono stati rilevati valori comparabili. Non è chiaro se questo sia dovuto alla maggiore contagiosità della variante Delta, che è stata rilevata nell’89 per cento dei campioni sequenziati.
Molti esperti ritengono che sia necessario accumulare più statistica per capire se effettivamente il vaccino non ha alcun effetto sulla carica virale e dunque sulla contagiosità.
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Indossare la mascherina al chiuso, dunque, contribuirebbe a proteggere chi non ha ancora completato il ciclo vaccinale o chi, per motivi di salute, non può vaccinarsi o non reagisce ai vaccini.
Inoltre, seppure sia ormai sempre più evidente che i vaccinati sviluppino prevalentemente forme lievi della malattia, uno studio condotto su 1500 operatori sanitari dello Sheba Medical Center in Israele e pubblicato mercoledì sul New England Journal of Medicine ha rilevato sintomi persistenti nel tempo in 7 dei 39 soggetti che si sono infettati dopo almeno 11 giorni dalla seconda dose del vaccino Pfizer-BioNTech. «Questo studio sembra suggerire che ci sono alcuni casi di long Covid anche tra le persone con infezione post-vaccinale», ha dichiarato Eric Topol, direttore dello Scripps Research Translational Institute in California alla National Public Radio.
Lo studio è significativo anche perché ha confrontato la concentrazione degli anticorpi neutralizzanti il SARS-CoV-2 nel sangue dei vaccinati che si sono infettati con quella rilevata nei vaccinati che non si sono infettati e con un profilo di rischio simile per età, sesso ed eventuale stato di immunosoppressione. I vaccinati infetti avevano titoli anticorpali inferiori a quelli dei vaccinati non infetti.
Si rinforza così l’ipotesi che il livello degli anticorpi capaci di bloccare l’ingresso del virus nelle cellule possa essere usato come indicazione del rischio di infezione. La possibilità di individuare segnali biologici facili da rilevare che siano correlati all’immunità permetterebbe di approvare nuovi vaccini senza effettuare studi clinici su decine di migliaia di persone, e anche di capire quando e chi ha bisogno del richiamo. È quello che già accade con il vaccino per l’influenza stagionale.
I richiami che vengono formulati ogni anno sulla base dei nuovi ceppi virali sono testati per efficacia in un numero ristretto di persone osservando questi segnali rivelatori dell’immunità nel loro sangue.
Tuttavia, anche se gli occhi dei ricercatori sono puntati sugli anticorpi neutralizzanti, ancora non è stato possibile individuare una concentrazione di soglia sopra la quale ci si possa ritenere protetti dall’infezione. Sono necessari più dati, «maggiore è il numero di infezioni post-vaccinali che rileveremo, maggiore sarà la probabilità di identificare dei valori di soglia» ha spiegato Kathryn Stephenson, esperta di vaccini del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston, intervistata su The Atlantic.
La durata della protezione
L’altro elemento emerso questa settimana riguarda la durata della protezione conferita dai vaccini. Mercoledì sono stati pubblicati i risultati dello studio clinico condotto in Europa e Stati Uniti sul vaccino Pfizer-BioNTech relativi all’andamento dell’efficacia nei sei mesi successivi alla vaccinazione.
La protezione verso l’infezione sintomatica scenderebbe di circa il 6 per cento ogni due mesi, raggiungendo un picco del 96 per cento a due mesi dalla seconda dose e scendendo all’86 per cento dopo sei mesi. La protezione dalla malattia grave rimarrebbe però estremamente elevata, pari al 97 per cento.
Da soli, questi dati non sono sufficienti a decidere se una terza dose di richiamo sia necessaria per contenere la diffusione del virus, e se sì quando. «La riduzione dell’efficacia è molto modesta», ha dichiarato Natalie Dean, biostatistica della Emory University a STAT News, «ci sono due possibilità: o la protezione del vaccino contro la malattia sta diminuendo leggermente o l'emergere di nuove varianti virali lo ha fatto sembrare meno efficace».
La decisione di Israele di somministrare la terza dose agli over 60 è basata invece su una analisi delle infezioni registrate nel paese tra il 20 giugno e il 10 luglio 2021.
Tenendo conto di età, sesso, patologie pregresse e fase epidemica, gli epidemiologi del ministero della salute israeliano hanno stimato che chi ha ricevuto la seconda dose a gennaio avrebbe una protezione dall’infezione del 16 per cento, a febbraio del 44 per cento, a marzo del 67 per cento, ad aprile del 75 per cento. L’efficacia media sarebbe del 39 per cento. L’efficacia del vaccino contro la malattia grave resta comunque elevata e pari al 91,4 per cento.
Uno studio osservazionale sulle infezioni registrate nel paese tra gennaio e l’inizio di aprile aveva rivelato un’efficacia del vaccino nell’evitare l’infezione del 95 per cento. Gli scienziati israeliani hanno espresso dubbi sull’affidabilità delle ultime stime. «Penso che questi ultimi dati vadano presi con cautela, per via del minore numero di infezioni considerate», ha affermato sul New York Times Eran Segal, biologo del Weizmann Institute of Science, mentre Ran Balicer, presidente del comitato di esperti che consiglia il governo israeliano, si è detto convinto che ci sia un calo nell’immunità ma non così netto e che sono necessarie stime più accurate.
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