Le strategie comunicative dei leader si costruiscono sulla base delle loro caratteristiche personali declinate al contesto corrente. Nel caso del premier incaricato, la chiave sarà narcotizzare il paese con poche parole chiare, dopo il sovraccarico di stress della crisi di governo
- Matteo Renzi si faceva guidare dall’istinto, nessuno spin doctor è mai riuscito a controllarlo. Parlava coi giornalisti, aveva la passione per dare i retroscena ai giornali. Paolo Gentiloni, all’opposto, seguiva le strategie.
- Mario Monti, invece, ha adottato la linea del silenzio per i primi mesi. E’ stata pagante, ma poi quando è sceso in politica e fatto campagna elettorale è nato il cortocircuito: non si capiva più chi fosse il vero Monti.
- Mario Draghi dovrà essere abile a sfruttare la comunicazione istituzionale e non ha bisogno di costruirsi un personaggio: la sua reputazione è già altissima. Ma dovrà fare attenzione all’effetto miracolistico, che potrebbe provocare delusioni.
Adattare le caratteristiche personali al contesto: questa è la ricetta che ogni portavoce – o meglio, spin doctor – offre per spiegare il successo di ogni leader. Politico o tecnico non fa differenza, l’equazione è sempre la stessa e vale anche per il probabile futuro presidente del Consiglio Mario Draghi.
Per il momento, la sua linea è quella della parsimonia: nessuna parola più del dovuto, stretto rispetto dell’etichetta istituzionale e nessun retroscena fatto filtrare ai giornali.
Mi si nota di più se…
Le scelte comunicative devono anzitutto rispecchiare il leader che le devono mettere in pratica. Valeva anche per Matteo Renzi, presidente del Consiglio simile per estro comunicativo solo a Silvio Berlusconi: lui è convinto di avere una sorta di predisposizione naturale alla comunicazione, dunque era impossibile fagli seguire una strategia. Il suo responsabile dei sondaggi non sarebbe mai riuscito a fargli fare nulla, nemmeno un post su Facebook, sulla base delle indagini demoscopiche realizzate ogni settimana.
Per Renzi la guida era il suo istinto, che si è declinato nell’hashtag #matteorisponde: da premier rispondeva direttamente ai cittadini sui social, senza alcun filtro della stampa, con quella disintermediazione che è una delle caratteristiche del populismo.
Renzi, poi, aveva una passione quasi ossessiva, coltivata già già da sindaco di Firenze, per le chiacchierate con i retroscenisti politici dei quotidiani, brevi telefonate sempre precedute da una premessa: «Off?». Cioè: «Scrivi quello che ti dico senza citarmi direttamente».
Nel corso dei suoi mille giorni da premier, ha fatto impazzire i direttori dei giornali, abituati ad essere i referenti formali della presidenza del Consiglio e che d’improvviso si sono trovati scavalcati dai loro stessi giornalisti.
Tutto l’opposto è stato invece Paolo Gentiloni. Pianificatore fino all’eccesso, seguiva in modo preciso la strategia studiata ma, da aristocratico della politica, ne detestava il lessico e in particolare la parola «controprogrammazione».
Presa in prestito dal gergo televisivo, è la programmazione studiata da una rete per competere con una avversaria. Gentiloni era circondato da leader politici come Luigi Di Maio, Matteo Salvini e lo stesso Matteo Renzi, portati molto più di lui alla battuta sui giornali e nei talk show: dunque la sua strategia è stata la controprogrammazione che consisteva nel non entrare in competizione diretta con gli altri ma offrire un’immagine opposta, fatta di dichiarazioni istituzionali al Tg1, parole misurate e profilo serio e pacato. Non a caso, il motto tra i suoi consiglieri era: «Il governo governa».
Una strategia vincente, che è stata adottata anche da Giuseppe Conte nel suo primo esecutivo: circondato dai due vicepremier Di Maio e Salvini così sovraesposti, la sua linea è stata quella di apparire il più moderato e meno interessato ad apparire.
L’esempio di Monti
Proprio la linea del silenzio è stata il tratto distintivo di Mario Monti a palazzo Chigi, almeno nella fase iniziale. La scelta è stata il prodotto del carattere del professore, declinata all’atmosfera drammatica del momento: il governo Monti si forma in due giorni e mezzo – tanto poco passa tra la chiamata del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e la formazione dell’esecutivo – e nasce schiacciato sotto la pressione europea di fare le riforme. Infatti, il governo dei professori produce in appena venti giorni il decreto Salva Italia, che deve mettere al sicuro il paese dal collasso economico. In una fase così concitata, Monti sceglie la linea del «fare in silenzio».
Subito dopo, invece, utilizza la comunicazione per tranquillizzare l’opinione pubblica e i mercati internazionali, privilegiando la stampa estera rispetto a quella italiana. E allora palazzo Chigi si è trasformato in una succursale di Bruxelles: briefing di spiegazione dei decreti, comunicati stampa cesellati alla virgola e massima trasparenza. Nessun rapporto con singoli giornalisti o testate, pochissime telefonate e molta comunicazione scritta, una sola linea guida: «Dire sempre la verità, senza indorare la pillola sui sacrifici richiesti». Parola chiave, ripetuta dallo stesso Monti più volte: sobrietà.
Questa strategia è stata vincente nel breve periodo del governo ma ha smesso di funzionare quando Monti ha scelto di scendere nel campo politico, facendo emerge il problema dello storytelling, la narrazione.
In campagna elettorale l’elettorato non si ammalia con il lavoro fatto ma con le promesse per il futuro e “l’agenda Monti”, così funzionale alla dimensione di palazzo Chigi, è diventata improvvisamente insufficiente.
Nella transizione dall’istituzione alla politica, l’opinione pubblica non ha più riconosciuto chi fosse Mario Monti. La confusione è aumentata con il tentativo di conquistare il grande pubblico, come quando ha preso in braccio il cagnolino Empy – diminutivo di Empatia – negli studi televisivi di Daria Bignardi.
I governi tecnici e i loro rappresentanti, tuttavia, godono di un privilegio: potersi muovere sulla linea sottile che separa la comunicazione istituzionale da quella politica. E proprio su questa linea dovrà destreggiarsi Draghi che – da ex presidente della Banca d’Italia prima e della Bce poi - ha decennale esperienza proprio di questa zona ibrida.
Basso profilo
Tutti hanno notato che Draghi non possiede canali social e probabilmente non li aprirà nemmeno se e quando si insedierà a palazzo Chigi: da presidente della Bce usava il profilo ufficiale dell’istituzione, altrettanto potrà fare con quello della presidenza del consiglio italiana.
L’accortezza sarà utile non solo per distinguersi rispetto ai leader politici così immersi nelle piazze virtuali, ma anche in vista del suo prossimo possibile passaggio. Se veramente il suo governo durerà il tempo di far terminare a Sergio Mattarella il mandato al Quirinale in vista di un passaggio di testimone, il profilo di un futuro presidente della Repubblica mal si attaglia ai toni necessari per essere protagonisti sui social.
La trappola in cui non deve rischiare di cadere, però, è quella del cagnolino Empy. Che, nel caso di Draghi, è rappresentato dalla tendenza dei media di rappresentarlo come un santo con il potere di fare miracoli. L’eccesso di fiducia di cui gode va gestito con attenzione, perché l’innamoramento veloce è spesso portatore di cocenti delusioni. Antidoto a questo sarà la tendenza naturale di Draghi alla misura: poche parole, appuntamenti periodici e pubblici con la stampa come faceva in Bce, messaggi chiari. Per sedare le voglie di campagna elettorale permanente dei partiti politici, invece, la chiave sarà dare l’esempio con il presenzialismo del premier ridotto al minimo.
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