All’inizio la politica estera non era nelle corde di Silvio Berlusconi. Tale impreparazione coinvolse anche le sue imprese e si appalesò nei falliti tentativi di internazionalizzare l’impero mediatico, rimasto -malgrado le ambizioni- piccolo a livello globale poiché solamente italiano.

L’esperienza di La Cinq francese messa in campo assieme all’amico miliardario transalpino Jerôme Seydoux, fallì nel giro di un anno (1986-87). Soltanto un po’ meglio è andata la vicenda di TeleCinco spagnola, senza tuttavia aver contato granché nel panorama audiovisivo europeo. Malgrado gli sforzi profusi, il gruppo Mediaset è rimasto racchiuso nel recinto italiano anche quand’era all’apice della sua influenza.

La rottura del negoziato con il tycoon Robert Murdoch nel 1995 dimostrò la scarsa visione con cui è stata sempre condotta la società: il non essere entrati in un grande gruppo di comunicazione globale ha ridotto l’impatto dell’azienda e, alla fine, la sua redditività.

In realtà non è esistita nel gruppo la cultura per farlo: non diversamente dalla maggioranza degli imprenditori italiani – salvo eccezioni –, Berlusconi e i suoi stretti collaboratori sono rimasti un fenomeno dentro i confini nazionali, ancorché di successo.

Politica estera

Lo stesso può dirsi del partito nuovo da lui fondato, Forza Italia, che ha modellato la politica italiana per oltre due decenni: a parte lodevoli eccezioni (come Antonio Tajani, Deborah Bergamini e Franco Frattini) non si è mai formata dentro Forza Italia una classe dirigente di livello internazionale, né si è costituito un vero dipartimento internazionale.

Fatte salve le relazioni personali di Berlusconi con altri leader, non vi è stato nulla che assomigliasse ad una rete di relazioni esterne con partiti simili o fratelli, come avevano avuto la Dc o il Psi, né sul modello anglossassone dei think tank. La retorica sul PPE, il partito popolare europeo, ha sempre celato un sostanziale disimpegno per tutto ciò che accadeva oltre frontiera, salvo nell’ultima parte della parabola del partito e grazie ad alcuni dirigenti, in particolare Tajani.

Se a Silvio Berlusconi non è riuscito il colpo d’ala internazionale, negli anni di leadership politica la sua popolarità fuori Italia fu estesa, toccando anche continenti e ambienti da lui poco frequentati, come in estremo oriente o in Africa subsahariana. Il suo indubbio talento personale lo portò ad avere relazioni di grande rilevanza che hanno modellato la politica estera italiana, cambiandola radicalmente.

La svolta

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Come spesso accade in Italia, non si trattò di un sistema consolidato, tutto dipese dal talento personale del leader. I governi di Berlusconi hanno rappresentato una sostanziale virata dalla tradizionale politica estera seguita fino a metà degli anni Novanta. Dopo il secondo dopoguerra l’Italia aveva costruito le sue relazioni internazionali fondendo assieme l’adesione all’alleanza atlantica e la scelta europea, con l’aggiunta un’originale politica mediterranea ed araba i cui protagonisti furono Aldo Moro, Amintore Fanfani, Giulio Andreotti e Bettino Craxi.

In sintesi per la DC, il PSI e il resto del pentapartito, si trattò di restare i “migliori alleati” degli Stati Uniti ma nel contempo divenire protagonisti del processo di integrazione europeo, rendendosi indispensabili all’interno del complesso equilibrio europeo. La politica mediorientale fu costruita su un’evidente equi-vicinanza tra Israele e i suoi avversari, allo scopo di difendere l’Italia dal terrorismo (lodo Moro), evitando che divenisse un campo di battaglia.

Democristiani e socialisti consideravano la nostra esposizione mediterranea una fragilità che poteva essere trasformata in un’opportunità. Verso la fine della prima repubblica l’Italia tentò un ruolo simile anche nei Balcani in via di frantumazione, ma non riuscì ad impedire il disastro.

Vicino agli Stati Uniti

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Un’altra fondamentale caratteristica della politica estera italiana prima dell’avvento di Berlusconi, era la fede assoluta nel multilateralismo, frutto dell’esperienza diplomatica della Farnesina in particolare: ancor prima della stessa classe politica nazionale, la nostra diplomazia aveva compreso che il paese uscito sconfitto dalla guerra mondiale doveva basarsi su una larga rete di alleanze per continuare a contare sugli scenari globali, almeno come media potenza.

Berlusconi giunse al potere con la fine della guerra fredda e la scomparsa del mondo bipolare. In uno scenario completamente cambiato mantenne lo schieramento con Washington ma abbandonò il resto della tradizionale politica estera italiana.

Alla Knesset

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Il cambiamento fu repentino e avvenne su tutti i dossier allo stesso tempo: freddezza per la costruzione europea (che giunse fino al rigetto dell’Euro); preferenza per le relazioni bilaterali su quelle multilaterali ed europee; priorità assoluta data all’alleanza con gli Usa e alla sue esigenze (inclusa la partecipazione a tutte le operazioni militari); scelta preferenziale per Israele.

A ciò si aggiunse il disinteresse per la cooperazione allo sviluppo (che crollò negli impegni) e il tentativo di sostituirla con il commercio estero (era l’aria del tempo: trade not aid). Il 3 febbraio 2010 Berlusconi tenne da premier un discorso davanti alla Knesset, il parlamento israeliano: era la prima volta che un presidente del consiglio italiano parlava davanti ai deputati israeliani, a dimostrazione della svolta avvenuta.

Il messaggio era chiaro: Berlusconi aveva operato affinché tutto il centrodestra italiano si modellasse su quelli occidentali, scegliendo gli Stati Uniti e i suoi più fedeli alleati, come appunto Israele.

Un’Italia più smart

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Contestualmente le relazioni politiche con i paesi arabi si raffreddarono e si rinunciò ad esercitare quel ruolo mediativo e da ammortizzatore che – con alterni risultati – l’Italia aveva svolto fino ad allora nel Mediterraneo.

È l’epilogo del “pacifismo democristiano” ma anche dell’attivismo craxiano in Nord Africa e Medio Oriente, che aveva vissuto gli ultimi momenti di grandezza con la vicenda di Sigonella nel 1985. Al posto di quella politica Berlusconi ne inaugura una nuova di sostegno al business commerciale pubblico-privato (nel quale vennero inclusi per la prima volta i paesi del Golfo), secondo una logica tutta economica legata ai profitti, allo scambio tecnologico, risorse energetiche e armi, che ebbe il suo apice in Turchia e Russia.

A tali dossier ha lavorato per anni uno dei più fidati consiglieri del cavaliere, Valentino Valentini, divenuto l’uomo degli affari internazionali del premier. L’incardinamento di Valentini all’interno della cellula diplomatica di palazzo Chigi introdusse una novità in un settore dominato da sempre dalla Farnesina, mutandone in parte la vocazione.

Tutti ricordano quando Berlusconi, ministro degli esteri ad interim, durante le riunioni alla Farnesina si sforzava di cambiare la prassi del Ministero degli esteri tentando di “insegnare” (come aveva fatto con successo in Forza Italia) ai diplomatici ad ammodernarsi (famosa la sua battaglia contro il panciotto) per trasformarsi in agenti commerciali di un’Italia più smart.

Nel cerchio magico del premier l’unico che sapeva davvero di politica estera era il capo della cellula diplomatica Bruno Archi, un esperto professionista, divenuto in seguito deputato e vice ministro nel governo Letta.

Euroscetticismo

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L’antipatia berlusconiana per l’Europa era condivisa da importanti ministri come gli euro-scettici Antonio Martino e Giulio Tremonti, oltre che dalla Lega. La battaglia contro l’Euro – e le critiche a Romano Prodi che l’aveva introdotto in Italia – durò per anni ed è all’origine della fake news sul “depauperamento” dell’Italia.

Paradossalmente dentro Forza Italia tali valutazioni si sono in un secondo tempo capovolte verso un sostegno all’Europa altrettanto appassionato. La preferenza berlusconiana per il commercio estero non era una fantasia del leader ma andava nel senso auspicato dall’imprenditoria italiana e riuscì ad aumentare il peso e il valore delle esportazioni.

Un’impostazione che rimane valida e pienamente integrata dalla Farnesina grazie ad una nuova generazione di diplomatici convinti dell’importanza del “made in Italy”, e più recentemente con la realizzazione di un vecchio progetto: l’integrazione dell’Ice (istituto del commercio estero) dentro gli Esteri.

Dal canto suo Adolfo Urso, che ricoprì quasi ininterrottamente la carica di vice-ministro del commercio estero nei vari governi del centrodestra ed ora è ministro delle imprese e Made in Italy del governo Meloni, divenne un punto di riferimento sicuro per il settore privato.

Libero mercato

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Berlusconi aderì pienamente al pensiero unico iperliberista: il commercio poteva essere utilizzato per riavvicinare gli avversari e espandere la liberal-democrazia. L’Italia berlusconiana costruì relazioni preferenziali con Vladimir Putin e Recep Erdogan, che favorirono molte imprese italiane.

Il leader italiano divenne un protagonista della politica estera della fase neo-liberista e personalista innescata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher, proseguita da Bill Clinton, George Bush jr e Tony Blair. Chi interpretò con professionalità tale nuova fase della politica estera globale furono senz’altro Franco Frattini, che il premier utilizzò alla Farnesina e che alla fine si rivelò un punto fermo nella costruzione di una sensibilità internazionale del centrodestra, e Antonio Tajani, l’uomo del leader a Bruxelles e dentro il Ppe.

Entrambi non sono estranei alla progressiva virata dall’euroscetticismo iniziale, alla fase finale in cui è prevalso un più pragmatico atteggiamento filo-europeo. Frattini si giovò dell’esperienza europea acquista da commissario a poi vicepresidente della Commissione a Bruxelles.

Tajani è giunto – com’è noto – alla presidenza del parlamento europeo, incarnando il Ppe in Italia e avvicinando Berlusconi ad Angela Merkel. Da attuale ministro degli esteri Tajani incarna l’Italia nel Ppe.

Un sogno incompiuto

Le relazioni personali di Silvio Berlusconi con i grandi leader mondiali sono certamente la pagina più interessante e espressiva della sua politica estera, ad iniziare con il duo Bush jr e Blair con cui si vide spessissimo.

Con il presidente americano nacque un rapporto solido, tanto da permettere a Berlusconi di organizzare nel 2002 il famoso vertice Nato di Pratica di Mare. Quest’ultimo viene ricordato ancora oggi come la massima realizzazione del leader in politica internazionale, un momento magico in cui la Russia e gli Usa si erano molto avvicinati. Il messaggio che si tramanda è che proseguendo su quella strada oggi il mondo sarebbe migliore e non ci sarebbe stata la guerra in Ucraina.

La domanda dunque è: perché non fu fatto? Anche se l’intuizione di Berlusconi fu ottima, egli non aveva la forza (né l’aveva l’Italia come paese) per imporre da solo tale evoluzione, mediante cioè i soli rapporti personali. La molto decantata politica estera delle relazioni personali (che non riguarda solo Berlusconi) non può funzionare se dietro di essa non vengono costruiti con continuità un intreccio di alleanze e un pensiero strategico.

La molto decantata politica estera delle relazioni personali (che non riguarda solo Berlusconi) non può funzionare se dietro di essa non vengono costruiti con continuità un reticolo di alleanze e un pensiero strategico. Non si fa politica estera con colpi ad effetto o intuizioni solitarie. Ad onor del vero si tratta di una carenza della seconda repubblica in generale, fatta eccezione per la politica europea di Romano Prodi che ha ancorato stabilmente l’Italia all’Europa in un momento in cui poteva essere sganciata.

Il vertice Nato di Pratica di Mare del maggio 2002 era senz’altro una buona idea ma nessuno fu in grado di dargli corpo e continuità. Nemmeno lo stesso Berlusconi seppe costruirvi attorno una rete di collaborazioni per consolidarla. Rimanendo un colpo molto personale, la partnership Nato-Russia si dissolse presto. Le numerose visite che si scambiarono Berlusconi e Putin non potevano riuscire a cambiare uno scenario strategico così delicato come quello tra Usa, Nato e Russia.

Lo si è visto nella crisi georgiana, poi con l’Ucraina fin dall’annessione della Crimea nel 2014 e la guerra attuale. Seppur abbia sempre avuto simpatia per Berlusconi, Putin sapeva bene di non poter contare sull’Italia per cambiare la linea politica della Nato e dell’Occidente in generale. Se i rapporti con Putin non hanno avuto effetti positivi sulle varie crisi Usa-Russia e sulla guerra attuale, non è stata solo responsabilità di Berlusconi: dimostra solo che la politica delle relazioni personali non è sufficiente.

Le guerre

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Nel 2006 Berlusconi ebbe l’onore di pronunciare un discorso davanti ai due rami del Congresso Usa riuniti in seduta comune, come era precedentemente accaduto soltanto a De Gasperi, Craxi e Andreotti.

Fu un riconoscimento molto importante per il nostro paese anche se qualcosa si era ormai incrinato nel rapporto con Bush e Blair. Un dossier importante divideva i leader atlantici dal nostro premier: la guerra in Medio Oriente. Malgrado la sua fedeltà occidentale, Berlusconi non è mai stato un guerrafondaio e non seguì Blair nel suo progressivo avvicinamento alle tesi americane sulle armi di distruzione di massa e sulla necessità assoluta di attaccare l’Iraq.

Dal punto di vista militare il premier italiano era un alleato riluttante, avvicinandosi piuttosto alla prudenza tedesca: nel 2003 frenò per quanto possibile sulla guerra in Iraq anche se alla fine dovette cedere per lealtà. Non avrebbe voluto essere troppo coinvolto nemmeno in quella d’Afghanistan e si oppose soprattutto al conflitto del 2011 contro Muammar Gheddafi, quando ormai alla Casa Bianca c’era Barack Obama.

Soprattutto, Berlusconi si oppose al conflitto del 2011 contro Mu’ammar Gheddafi, quando ormai alla Casa Bianca c’era Barack Obama. Facendo tesoro dei precedenti tentativi del centrosinistra, Berlusconi era riuscito a stabilire con il leader libico una relazione complessa ma stabile che aveva portato alla firma del trattato con cui Italia e Libia avrebbero dovuto girare definitivamente la pagina coloniale.

Disastro libico

Berlusconi intuì che la guerra voluta da Nicolas Sarkozy avrebbe portato solo guai, come poi in effetti è avvenuto. Ancora una volta l’Italia si rendeva conto di non possedere la forza sufficiente per opporsi alla linea dei propri alleati. Con Sarkozy i rapporti non sono mai stati idilliaci, mentre l’amicizia con Angela Merkel alla fine divenne solida.

Indebolito sul piano interno e isolato su quello internazionale, Berlusconi non poté resistere e venne trascinato a fare ciò che non voleva. Un discorso simile può essere fatto sui rapporti con la Turchia, anche se in questo caso il quadro interno era differente. Berlusconi è stato uno dei più forti sostenitori dell'adesione di Ankara all'Unione europea, allo stesso modo di Romano Prodi (si tratta forse dell’unico punto su cui i due leader erano d’accordo).

Con Mosca le relazioni restarono buone a lungo, tanto che durante la guerra in Georgia, Berlusconi aiutò Sarkozy a fermare il leader russo.

Il bilancio

Per un leader che tre volte ha presieduto il G7/G8 e ha partecipato da protagonista ai momenti più rilevanti della fase storica post-guerra fredda, si tratta di un bilancio con un latente senso di incompiutezza, anche considerando le limitate possibilità del nostro paese.

Berlusconi rappresentò certamente una vera discontinuità con la politica estera precedente, raffigurando una fase del tutto nuova e riuscendo a vincere la battaglia culturale dentro il paese pur senza ottenere un’ascesa dell’Italia nella gerarchia internazionale.

In larga maggioranza gli italiani hanno seguito la sua svolta e l’hanno sostenuta: ad esempio sono divenuti più euroscettici o perlomeno eurocritici, dopo essere stati tra i più forti sostenitori dell’integrazione europea. Come Berlusconi hanno sostenuto una politica estera più versata nel commerciale e meno multilaterale. Le simpatie per le Nazioni Unite sono diminuite anche se non è venuta meno una reale diffidenza per le guerre, compresa quella in Ucraina.

Nel paese è mutato l’atteggiamento nei confronti di Israele, divenendo maggioritariamente positivo. Paradossalmente ciò è avvenuto proprio mentre le comunità islamiche diventavano più rilevanti a causa dell’immigrazione.

La virata ha contagiato anche la sinistra italiana che ha mutato la sua propensione in favore degli arabi, per un atteggiamento del tutto nuovo nei confronti dello Stato ebraico. Gli storici delineeranno il confronto tra l’apporto personale dato da Berlusconi a tali svolte e le condizioni storiche oggettive che le imposero.

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