Sono i giorni della rievocazione dell’Ulivo, del «modello Prodi», di Ernesto Maria Ruffini che si dimette dall’Agenzia delle Entrate ma si dichiara non intenzionato «scendere in campo», e dello stesso Prodi che dice di lui «l’uomo è retto, capace, conosce il Paese, poi bisogna vedere se infiamma la gente». Chiediamo lumi a Arturo Parisi, uno degli artefici del primo Ulivo, già ministro della Difesa. Risponde misurando le parole: «Ho letto anche io la sua intervista, e nelle motivazioni dell’addio al suo ruolo di tecnico, una chiara scelta politica. Rigorosamente riferita alla sua esperienza di quel funzionario pubblico, il “civil servant”, e alla preoccupazione per le istituzioni di tutti e alla Repubblica come casa comune. Già una conquista che non parli mai di centro o roba simile. Non è poco. Ancor di più che abbia evitato ogni riferimento al passato o alla ispirazione interiore che lo guida nella vita troppo spesso chiamata in causa da chi confonde la questione del centro con la questione cattolica.

Non crede che potrebbe avere un ruolo in una formazione centrista?
Nonostante le interviste e le voci, non è ancora una “entrata in campo”. Quale sarà il suo ruolo lo sapremo presto. Anche la panchina è riservata a chi un ruolo lo ha. Sia esso quello di federatore della coalizione o solo di una parte, grande o piccola che sia, dei rappresentanti del residuo centro sociale o di tutto il campo, lui come ogni altra, o altro, dovrà spiegare come portare tutto il campo al centro del Paese. Questa la domanda centrale, questa la risposta che conta.

La lezione americana è quella di una polarizzazione del voto fra estreme, o quasi. Ha senso la discussione che si fa qui in Italia sulla riorganizzazione del centro?

Se approfondissero la “lezione americana” scoprirebbero che la questione del centro, e, aggiungo, del perdita del centro, è quella appunto che ha segnato e deciso la stragrande maggioranza delle competizioni elettorali di questi ultimi mesi nei paesi nei quali si può parlare di elezioni. Parlo di centro, non di assenza di liste di centro o, come ha appena detto, di riorganizzazione dello spazio politico intermedio tra le proposte polari. Prima che una proposta politica o proponenti politici detti o sedicenti di centro quella che manca o viene meno è una domanda di centro che muove dalla società. E questo perché l’aumento delle diseguaglianze sta distruggendo tra i cittadini elettori e ancor di più tra gli umani, cittadini o non cittadini che siano, che convivono dentro quella che ci piacerebbe dire comunità, continua ad indebolirsi lo strato centrale, quello che stava appunto nel mezzo. Dimenticato quel profilo della società che chiamavamo a diamante ora si che va affermandosi quello a clessidra, con gli inclusi che come granelli di sabbia scorrono dal cono superiore verso il basso e il bulbo inferiore che si riempie ogni giorno di più. Lasciamo perdere le parole che registrano identità e autoidentificazione di una realtà passata. Il fatto è che sta venendo meno la condizione intermedia pensata un tempo come approdo a portata di mano per quelli di sotto ed esito rischioso ma non tragico di quelli di sopra. È l’irruzione del mercato globale che va alimentando una reazione di segno eguale e contrario il ciclone che attraversa il mondo. Nello scontro tra inclusi ed esclusi, tra chi del cambiamento non ha paura e quelli che lo percepiscono una fregatura, hanno più probabilità di portare al voto e prevalere nel voto quelli che a questa ciclone sembrano opporsi piuttosto che quelli che parlano ai globalisti o a nome loro a quelli della comunità di valori culturali a prescindere da ogni tradizione, della libertà senza freni di commercio, e dei movimenti di persone indifferenti ai confini. In un confronto che volge sempre più allo scontro dentro il quale è sempre più difficile rappresentare nella politica un centro che viene meno nella società.

Questo dibattito sul "centro" del centrosinistra è in corso sui media. Ma c’è anche nel paese, o quanto meno nell’elettorato reale del campo progressista?

Tra gli addetti ai lavori è un dibattito che crescerà sempre più. E come potrebbe essere altrimenti in una situazione nella quale l’offerta politica supera di troppo la domanda sociale, visto che i proponenti vanno crescendo in proporzione inversa ai rispondenti. Una situazione alimentata contemporaneamente dagli eredi delle abitudini, attese e pretese del vecchio ceto politico che a nome di un centro sociale allora consistente ha governato per cinquant’anni il Paese sotto il segno dello scudo crociato, ma non di meno dagli eredi della parte per cinquant’anni avversa guidati dall’illusione che altri si incarichino della raccolta dei consensi residui che loro non vogliono e non sanno fare. È anche per questo che la irrisolta questione del centro continuerà ad alimentare questo dibattito politicista, fino a quando la leadership di turno non capirà che solo posizionandosi al centro del campo, potrà ambire a portare tutto il centrosinistra al centro cioè alla guida del governo della Repubblica, e, in questo caso diciamo pure, della Nazione.

Un leader che porta il centro al centro, capisco che non è Elly Schlein?
Come dicevo un tempo ai Democratici: quello di cui c'è bisogno non è un Pd che si faccia lui stesso centro o si faccia un partitino di centro del centro-trattino-sinistra, ma che si carichi del problema della sintesi di tutte le posizioni del campo pensando a quella di tutto il Paese. Per spiegarlo sarebbe certo d’aiuto Togliatti: quello dell'appello del 1936 ai “fratelli in camicia nera” e quello dell’amnistia del 1946.

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