Con il via libera definitivo della Camera di giugno, dopo quello del Senato lo scorso gennaio, l’autonomia differenziata è ufficialmente legge e ha iniziato un lungo percorso che dovrebbe portare all’attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione, introdotta nel 2001. Si tratta di una misura quadro e procedurale che stabilisce le regole con cui le regioni potranno chiedere maggiore autonomia nella gestione di specifiche materie.

I partiti di opposizione, con l’eccezione di Azione, si sono riuniti nel comitato “Sì all’Italia unita, libera, giusta” e si stanno mobilitando per un referendum abrogativo. In soli dieci giorni di gazebo, ma soprattutto grazie alla firma digitale, il quesito ha superato le 500mila necessarie, con le firme digitali che hanno oltrepassato quota 350mila. Per i promotori lo scoglio verrà dopo, dato che il referendum richiede il raggiungimento del quorum (raggiunto per l’ultima volta nel 2011).

Cosa prevede la legge

Il disegno di legge approvato il 19 giugno, che porta il nome del ministro per gli Affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli, prevede che le regioni possano richiedere l’autonomia su 23 materie specifiche. Tra gli ambiti oggetto di devoluzione ci sono l’istruzione, la salute, lo sport, l’ambiente, l’energia, i trasporti, la cultura e il commercio estero. Quattordici di queste materie sono definite come Livelli essenziali di prestazione (Lep), su cui vanno garantiti «standard minimi su tutto il territorio nazionale» perché riguardano diritti civili e sociali.

Materie soggette ai Lep

  • Lavoro
  • Istruzione
  • Università
  • Ricerca scientifica
  • Salute
  • Alimentazione
  • Sport
  • Governo del territorio
  • Porti e aeroporti
  • Trasporto e navigazione
  • Comunicazione
  • Energia
  • Beni culturali
  • Ambiente

Uno sguardo alle materie solleva però dubbi e il sospetto che dovrebbero dipendere dal livello nazionale, se non addirittura europeo. «Si pensi alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali: difficilmente si può pensare una normativa valida solo entro i confini regionali», dice a Domani Luca Bianchi, direttore di Svimez (l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno). Lo stesso vale per settori come porti e aeroporti civili e trasporto e distribuzione dell’energia, che hanno ricadute su tutto il paese.

La concessione dell’autonomia è quindi subordinata alla definizione dei Lep e, fatto non meno importante, alla disponibilità di risorse finanziarie. Stabilire i Livelli essenziali è competenza dello stato, che deve provvedere entro due anni dall’entrata in vigore della legge. La riforma prevede poi una clausola di salvaguardia che consentirà al governo di intervenire nei confronti di regioni inadempienti o «in situazioni di pericolo per la sicurezza pubblica».

Un percorso a ostacoli

Il testo della legge specifica che la concessione di maggiore autonomia alle regioni che ne fanno richiesta avviene con una legge dello stato, approvata a maggioranza assoluta dal Parlamento, sulla base di un’intesa tra lo stato e la regione interessata. Il negoziato inizia al massimo dopo due mesi e dopo che i ministeri competenti hanno dato il loro via libera.

In seguito, ha ricostruito Pagella Politica, il Consiglio dei ministri approva uno schema di intesa preliminare tra lo Stato e la singola regione, che deve essere trasmesso alla Conferenza unificata, che include rappresentanti delle regioni, delle province e dei comuni. Dopo numerosi step intermedi, il Cdm approva l’intesa finale, che deve avere l’approvazione del parlamento.

Il meccanismo per ottenere l’autonomia è quindi lungo e complesso, un tema sollevato sia dai sostenitori che dai contrari alla legge. Chi è a favore ripete che un processo così articolato «anestetizza» possibili pericoli e che dà tempo per modificare eventuali storture. Per questo stesso motivo, i contrari criticano «l’improvvisazione» mostrata dal governo e dicono che la legge sarà, se non dannosa, di fatto inapplicabile.

I prossimi passi dell’autonomia

  • Entro 24 mesi definizione dei Lep e di fabbisogni e costi standard. Il Consiglio dei ministri adotta un dpcm per ogni Lep

  • La singola regione invia la proposta di intesa al Cdm e inizia il negoziato governo-regione

  • Il Cdm approva l’intesa preliminare e si chiede il parere della Conferenza unificata

  • Il testo è inviato alla regione. L’intesa torna in Cdm per l’approvazione definitiva con disegno di legge

  • Il ddl viene votato dal parlamento a maggioranza assoluta

Determinare i Lep

Il cuore della riforma è rappresentato dai Lep, su cui si misura il suo vero impatto: senza i Livelli essenziali e il loro finanziamento, che dovrà essere esteso anche alle regioni che non chiederanno la devoluzione, non ci sarà autonomia. I Lep sono previsti dalla Costituzione fin dal 2001 ma, salvo che in modo implicito in pochi provvedimenti, lo stato non ha mai provveduto a disegnarli in modo organico.

Il procedimento per fissare i Lep è molto complicato. Lo stato non deve solo fissare una soglia, ad esempio il numero di posti letto che deve essere garantito negli ospedali. Deve anche calcolare quanto costa raggiungere quella soglia: stabilire i fabbisogni standard, che definiscono le risorse necessarie per offrire servizi essenziali, e i relativi costi standard.

Entrando più nel dettaglio, la definizione dei Lep comporta passaggi non banali: dalla mappatura dei servizi erogati sul territorio all’identificazione dei servizi in cui è necessaria la determinazione dei Lep, dalla valutazione dei livelli di spesa per i settori interessati dai Lep alla determinazione dei costi e dei fabbisogni standard. Se le risorse a disposizione dell’ente non bastano per erogare il servizio in questione, va poi calcolato a quanto ammontano le risorse aggiuntive.

I fabbisogni standard

Se il Comitato tecnico-scientifico presieduto da Sabino Cassese ha pubblicato già a ottobre una relazione che individua per sommi capi le materie Lep, spetterà poi alla Commissione tecnica per i fabbisogni standard, che ha sede al ministero dell’Economia, stabilire con quale ammontare andranno garantiti i servizi. L’ultima parola passerà poi alla Cabina di regia presieduta dalla presidente Meloni e costituita dai ministri competenti, oltre che dai presidenti della Conferenza delle regioni.

La stima dei fabbisogni e dei costi standard, cioè l’ammontare di risorse necessarie all’erogazione delle prestazioni e i relativi costi, non è ancora avvenuta. E se ne riparlerà «non prima di dicembre», hanno detto pochi giorni fa fonti di Fratelli d’Italia, dando per scontato che si scavalcherà la prossima legge di Bilancio. Se in passato tale determinazione si è basata sui livelli storici di copertura dei servizi, ora l’obiettivo dovrebbe essere il superamento della spesa storica, per tenere conto delle caratteristiche territoriali e sociodemografiche dell’ente.

Il sistema della spesa storica, ricorda un report della Corte dei conti, «non si è dimostrato coerente con la tutela dei diritti civili e sociali», riflettendo gli squilibri tra regioni del nord e del sud Italia. Nonostante ciò, la legge prevede che la determinazione dei fabbisogni standard avverrà «a partire da una ricognizione della spesa storica dello stato in ogni regione nell’ultimo triennio». Questo criterio controverso, che premia le regioni settentrionali, non sarà quindi abbandonato del tutto.

Addio spesa storica?

Ma al di là del problema di definire che cosa rientra o meno tra i Lep, il punto è dove trovare le risorse per finanziarli. La legge stabilisce che alle regioni può essere concessa più autonomia se non ci sono maggiori oneri a carico dello stato. Se invece questi costi ci sono, la concessione può avvenire solo dopo l’adozione di provvedimenti che stanzino le risorse necessarie.

Ma cosa succede se, nella determinazione dei Lep, i costi standard si rivelano superiori ai costi storicamente sostenuti? In questo caso, hanno notato Massimo Bordignon e Leonzio Rizzo su lavoce.info, le risorse aggiuntive rispetto allo storico dovranno essere trovate «all’interno del bilancio dello stato, aumentando le aliquote sui tributi erariali o riducendo la spesa da qualche parte». Due vie che, per motivi diversi, sono molto difficili da percorrere.

L’esito più probabile è che l’attuazione dell’autonomia differenziata avverrà, soprattutto nella fase iniziale, a spesa storica, cioè assumendo che quanto lo stato spende già ora per le funzioni Lep sia esattamente quanto necessario per finanziarli. Le esigenze di spesa potrebbero quindi rivelarsi il criterio per stabilire i Livelli di prestazione, individuati a partire dalle esigenze di finanziamento.

«Saranno le risorse disponibili a decidere i Lep, in contrasto con la sentenza della Corte costituzionale per cui deve essere “la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”», ha spiegato a Domani Mariella Volpe, economista del Forum disuguaglianze e diversità.

I rischi dell’autonomia

Come si è detto all’inizio, la legge voluta dalla Lega è molto controversa. Chi critica il progetto, dall’opposizione a molti esperti, sostiene che concedere più autonomia alle regioni aumenterà le disuguaglianze tra i territori e peggiorerà i servizi pubblici, già carenti in alcune zone. E che le richieste delle regioni saranno così numerose e pervasive da produrre una frammentazione delle politiche pubbliche.

«È una riforma che strizza l’occhio ad alcuni egoismi territoriali e finisce per ridurre la competitività del sistema Italia, soprattutto del settore produttivo. Lo conferma la cautela del mondo imprenditoriale, anche di Confindustria – dice ancora Bianchi – La dimensione delle politiche viene schiacciata sul livello locale, ma il contesto internazionale ci suggerisce che servono politiche almeno nazionali».

I favorevoli sostengono invece che concedere più autonomia consentirà di migliorare i servizi per i cittadini e renderà più efficiente la spesa regionale. Anche dentro il governo non mancano però divisioni, con lo scarso entusiasmo dei ministri di FdI e la freddezza di alcuni governatori forzisti. A partire dal presidente della Calabria Roberto Occhiuto, che ha chiesto (inascoltato) di non far partire le intese, anche su materie non Lep, «finché non sarà superata la spesa storica».

Cosa cambia per la scuola

Tra le materie su cui le regioni possono chiedere l’autonomia, scuola e sanità sono quelle per cui l’impatto negativo si annuncia maggiore. Per quanto riguarda l’istruzione molto critica è la situazione di partenza, con forti disparità tra regioni: al sud il 79 per cento degli alunni delle scuole elementari non ha la mensa, mentre al centro-nord il dato è del 46 per cento; il 18 per cento degli studenti al sud gode del tempo pieno, mentre al nord la percentuale sale al 48.

Da decenni la politica non si occupa di sanare questo divario, che l’autonomia differenziata rischia di aggravare ancora. Uno dei punti più critici riguarda il possibile aumento dei divari salariali tra insegnanti di regioni diverse dopo l’entrata in vigore della legge, in un contesto in cui molti comuni sono alle prese con problemi di bilancio o in dissesto finanziario.

«Per ora gli stipendi non variano, ma il residuo fiscale delle regioni del nord non è lo stesso del Meridione. Con la nuova legge ci sarà una spaccatura in termini salariali: un professore di su avrà uno stipendio più alto di uno di giù», ha detto a Domani Rossella De Marco, insegnante a Lampedusa. Ciò favorirà l’esodo del personale verso il nord Italia, con un ulteriore impoverimento del sud.

«Regionalizzare la scuola significa disgregare il sistema nazionale dell’istruzione, pervenendo a programmi diversi nei vari territori e a sistemi diversi per reclutare gli insegnanti. Ma così si perde la sua funzione principale, che è quella di generare uguaglianza», ha scritto Volpe, che con il Forum disuguaglianze e diversità promuove il referendum per l’abrogazione della legge.

Medici e pazienti in fuga

Un discorso analogo può essere fatto per la sanità. Già ora nel sud Italia i servizi di prevenzione sono più carenti, minore è la spesa sanitaria, più lunghe le distanze per ricevere assistenza. E il monitoraggio dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), che offre un quadro delle differenze nella qualità delle prestazioni fornite, mostra che cinque regioni meridionali sono inadempienti.

Tra gli ambiti interessati dalla legge c’è la gestione di medici e infermieri, la regolamentazione dell’attività libero-professionale (quindi il rapporto con il privato) e l’accesso alle scuole di specializzazione. Concedere forme di autonomia potrebbe migliorare le capacità di spesa nelle regioni del nord, finanziate anche dall’eventuale extragettito derivante dalla crescita economica, e ampliare le disuguaglianze con il sud.

«Le regioni più ricche potranno assicurare più facilmente il rispetto dei Lea, mentre quelle meno dotate avranno più difficoltà a garantire un’assistenza dignitosa ai cittadini – dice Bianchi – In più, la possibilità di alcune regioni di aggirare il contratto nazionale di lavoro consentirà loro di offrire salari più alti, incoraggiando la migrazione di personale al nord».

Da anni, del resto, la fuga dei pazienti (oltre che dei medici) è un problema destabilizzante per il Mezzogiorno, con il più recente rapporto Gimbe (relativo al 2021) che stima in quattro miliardi il valore della mobilità sanitaria interregionale. «La riforma toglierà allo stato le leve per redistribuire le risorse e porterà a un aumento della mobilità di cura. Si va verso un modello per cui al sud si andrà solo in vacanza e al nord per lavorare e curarsi», dice il direttore di Svimez.

Il trasporto locale

Se per scuola e sanità la determinazione dei Lep è relativamente semplice e i criteri sono in parte consolidati (numero di docenti e alunni per classe, posti letto per abitante e liste di attesa), nel settore dei trasporti il quadro è più complesso. Le difficoltà maggiori si registrano già all’inizio del processo di attuazione dell’autonomia, nella fase che riguarda i Livelli essenziali di prestazione.

Come ha notato Marco Ponti, questo ambito interessa servizi pubblici e privati, modalità di trasporto diverse (individuali e collettive, su ferro e su gomma) e infrastrutture che supportano i diversi servizi (reti stradali e ferroviarie, ma anche porti e aeroporti). Le regioni e i comuni hanno già un ruolo significativo nella pianificazione dei servizi e delle reti locali, mentre da Roma dipendono i servizi e le reti nazionali.

Per definire i Lep un primo passo da fare riguarda la scelta se limitarsi «ad assicurare livelli adeguati del trasporto pubblico locale o considerare tutti gli aspetti della mobilità e dell’accessibilità regionale», ha scritto Ponti. L’aggettivo “essenziale” spinge a considerare solo i servizi locali, ma anche così non si semplificano le cose. La strada per individuare gli standard minimi è in salita, figuriamoci i passaggi successivi.

Vantaggi per il nord?

«L’autonomia farà male al sud senza dare grossi benefici al nord, perché porterà a un indebolimento complessivo delle politiche pubbliche, con una frammentazione degli interventi. Anche le economie del centro-nord saranno più deboli rispetto alla competizione internazionale», nota ancora Bianchi. La battaglia del sud, insomma, è per l’unità nazionale, motivo per cui imprese e intellettuali anche “non meridionalisti” dovrebbero farsi sentire contro la legge.

Dello stesso parere è l’economista Innocenzo Cipolletta, che su questo giornale ha evidenziato come il progetto autonomista danneggerà le regioni più deboli ma implicherà pure una crescita delle tasse a scapito delle aree del nord: «La sola via per assolvere ai Lep rispettando i vincoli europei, anche alla luce del nuovo Patto di stabilità, consisterà nell’aumento della pressione fiscale».

Le regioni settentrionali, che «una falsa narrazione» indica come favorite dal progetto leghista, saranno quelle che pagheranno di più. Secondo Cipolletta, infatti, l’aumento delle tasse riguarderà soprattutto le aree più ricche del paese (quelle con maggiore capacità contributiva), che finiranno per «restituire con gli interessi i presunti ed effimeri vantaggi che deriverebbero dall’autonomia».

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