L’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: spesso i tribunali tolgono i figli a donne migranti, vittime di tratta, perché non sono considerate buone madri. I bambini poi vengono adottati da famiglie italiane
- «Il problema è l’‘adozione a rischio giuridico’, cioè la collocazione nella famiglia adottiva subito dopo la sentenza di primo grado», spiega Salvatore Fachile, dell’ASGi, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.
- Da una parte ci sono famiglie adottive che per mia esperienza a volte non sanno neanche che c’è un ricorso in atto, dall’altra c’è la madre che continua a richiedere la potestà genitoriale.
- La Corte europea imputa all’Italia questo: non si può interrompere la frequentazione della madre con i figli fino alla fine del procedimento a meno che non ci siano abusi o pericolo per i minori.
«Donne migranti, spesso nigeriane, vittime di tratta. Mamme single che vengono schiacciate dal sistema: ne ho visti a decine di casi così». Cristina Cecchini è una degli avvocati di A.: una ragazza come tante, costretta a prostituirsi sulle nostre strade, che si è vista togliere le figlie, affidate a famiglie italiane. Per il suo caso il nostro paese è stato condannato dalla Corte di Europea dei Diritti dell’Uomo. I numeri sono protetti dalla privacy, ma il suo caso non è isolato: è simile a quello di tante altre donne migranti, spesso vittime di tratta, cui vengono tolti i figli, dati in affidamento o adozione a famiglie italiane perché le loro non vengono ritenute dalla giustizia italiana buone madri.
La storia di A. è simile a tante altre: dopo alcuni anni di sfruttamento sessuale resta incinta, decide che la bambina deve avere un futuro diverso e trova la forza di affidarsi al sistema antitratta: denuncia la sua sfruttatrice, testimonia al processo contro di lei e ottiene il permesso di soggiorno. Ma il lieto fine non c’è. La donna trova un nuovo compagno e ha un’altra bimba che però, a un certo punto, si sente male: viene portata in ospedale a Roma e intubata. A., ospite di un Cas, Centro di accoglienza straordinaria, è preoccupata e confusa, chiede spiegazioni, non capisce cosa succede. Scatta, fa una scenata di panico: vuole sapere cosa stanno facendo a sua figlia. Di mediatori culturali nemmeno l’ombra. E il servizio sociale dell’ospedale chiama la procura minorile.
Ospedali pericolosi
«Gli ospedali sono un luogo critico per le madri straniere», racconta Cecchini. È lì che comincia l’incubo di A.: all’inizio dell’estate del 2014 una corte le sospende la potestà genitoriale, la macchina dei servizi sociali si mette in movimento, un tribunale dovrà giudicare se A. è una buona madre.
La figlia più piccola viene messa in un istituto, l’altra va a vivere con la madre in una casa famiglia dopo essere passata a sua volta da un altro istituto. L’anno dopo mamma e bimbe vengono riunite, quello dopo ancora separate: A. ha diritto di visita una volta a settimana. Nel 2017 viene dichiarato lo stato di abbandono e le bambine vengono date in adozione a due famiglie diverse.
Oggi A. ha quarant’anni e non smette di lottare per le figlie. Ha perso in appello, mentre la Cassazione ha ordinato al tribunale di adottare quella che oggi si chiama “adozione mite”: un istituto giuridico nuovo che permette di mantenere la relazione con il genitore biologico.
La decisione della Cassazione sull’adozione mite è «una sentenza importantissima che ha suggellato la crisi di un modello di adozione», dice a Domani Alida Montaldi, presidente del Tribunale dei Minorenni di Roma. «D’altronde non si può pensare che un sistema concepito negli anni ‘80 possa passare indenne a tutte le modifiche che ci sono state nelle relazioni umane, familiari e sociali».
Il caso di A. potrebbe essere quindi l’inizio di un cambiamento della giurisprudenza sulle adozioni: cambiamento che la presidente condivide.«“Quello che non è giusto però è pensare che ci sia un giudice che cala sulle famiglie con l’accetta», conclude. «Questa è un’idea consolatoria che solleva da tante responsabilità un po’ tutti». Gli avvocati di A. hanno poi portato il caso presso la Corte di Europea dei Diritti dell’Uomo e il primo aprile scorso la Cedu le ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcire la donna per 15mila euro. Ma la possibilità di rivedere le bambine è ancora lontana.
Come funziona il sistema
«Dall’inizio del procedimento di abbandono la donna è continuamente sotto giudizio in queste case famiglia che hanno il doppio compito di supporto e osservazione», spiega l’avvocata Cecchini. «Qui qualcosa che non torna nella relazione mamma-bambino - soprattutto all’occhio occidentale - c’è sempre».
Se le donne non superano questo primo passaggio rischiano di venire separate dai figli: vengono buttate fuori dalla casa famiglia e possono andare in visita un’ora, al massimo due alla settimana, sempre sotto la supervisione di un operatore. «Ma il legame già si spezza e se la donna arriva tardi perché l’autobus non è passato, se non si informa sulle medicine che il bimbo prende, se porta del cibo senza chiedere se il figlio magari ha già mangiato, diventa un punto di giudizio sul suo comportamento. In quell’ora la madre non è lì per godersi del tempo con il figlio, ma per superare ogni volta un esame», dice ancora Cecchini.
Adozione a rischio giuridico
«Il problema è l’utilizzo di quella procedura che si chiama ‘adozione a rischio giuridico’, ovvero la collocazione nella famiglia adottiva subito dopo la sentenza di primo grado», spiega Salvatore Fachile, veterano dell’ASGi, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, e nel collegio dei difensori di A. di fronte alla Cedu.
«Da una parte ci sono famiglie adottive che per mia esperienza a volte non sanno neanche che c’è un ricorso in atto, dall’altra c’è la madre che continua a richiedere la potestà genitoriale. La Corte europea imputa all’Italia questo: non si può interrompere la frequentazione della madre con i figli fino alla fine del procedimento a meno che non ci siano abusi o pericolo per i minori».
Nel caso di A. per la Cedu l’Italia ha infranto l’articolo 8 della Convenzione Europea, ovvero il «rispetto della vita privata e familiare», in particolare per il fatto di aver interrotto le visite con la madre biologica prima dell’adozione definitiva nonostante il parere favorevole del consulente tecnico del tribunale, la separazione delle sorelle e la mancata attenzione alla vulnerabilità della madre in quanto vittima di tratta.
«Dalla decisione del Tribunale e della Corte d'Appello è anche evidente che i tribunali nazionali hanno valutato le capacità genitoriali della ricorrente senza prendere in considerazione la sua origine nigeriana e il diverso modello di attaccamento tra genitori e figli che si può trovare nella cultura africana, come la relazione della consulente aveva chiarito abbondantemente», scrive la Cedu.
Ora il procedimento è tornato in Corte d’Appello dove si dovrà valutare se applicare l’adozione mite, ovvero mantenere le bambine nelle famiglie adottive e ripristinando il rapporto con la madre biologica.
«Il problema - dice Cecchini - è che nessuno ha lavorato adeguatamente sulla vulnerabilità che questa donna, a causa del suo vissuto, sicuramente ha». E il processo rischia di andare avanti ancora anni, con la prosecuzione della separazione di madre e figlie se non vengono recepiti i principi dettati dalla Corte Europea.
Gli italiani che tolgono i figli
Oggi - secondo quanto emerge dalle inchieste del collettivo europeo di giornalisti Lost in Europe (lostineurope.org) tra le migranti che arrivano nel nostro paese gira una voce: quella che gli italiani possono togliere loro i figli.
«Ho visto due bambini portati via di fronte ai miei occhi a due mie amiche», racconta Mary (nome di fantasia) a Ismail Einashe di Lost in Europe. Mary è nigeriana, ex vittima di tratta e racconta con terrore quel periodo nel centro di accoglienza. «Dicono che li hanno portati via per come gli davano da mangiare», racconta. Anche Mary dà da mangiare così a suo figlio, con le mani. Incoraggiandolo se non vuole, “forzandolo” secondo gli operatori. «Dicono che sia contro la legge», dice. «Ero davvero spaventata che lo portassero via anche a me».
Il caso Zhou
«A Strasburgo di casi come quelli di A. dall’Italia ne arrivano decine», spiega a Domani Giulia Perin, avvocata che ha aperto la strada alle sentenze Cedu per violazione dell’articolo 8 da parte dell’Italia con il caso Zhou.
Un caso che ha fatto scuola: quello di una donna migrante cinese, madre single con un lieve deficit intellettivo dovuto ad un'ischemia avuta in gravidanza. Già seguita dai servizi sociali, il tribunale ha deciso di toglierle il figlio quando la donna ha affidato il bambino ai vicini mentre era al lavoro. Anche qui dopo un percorso di allontanamento il minore era stato dichiarato adottabile.
La Cedu ha condannato l’Italia a pagare alla donna 40mila euro più 5mila di spese legali: secondo la Corte il nostro paese non ha fatto abbastanza per preservare la possibilità della madre di stare con il figlio nonostante la presenza di un legame affettivo e l’assenza di abusi o violenze. La donna non ha più visto il figlio. «Dopo la sentenza Cedu – dice Perin – siamo andate alla Corte Costituzionale, ma ha risposto che è compito del legislatore italiano modificare la normativa».
“Il compito del tribunale dei minori dovrebbe essere quello di controllare che il bambino o bambina stia bene, ma spesso molte famiglie sono vulnerabili, fragili e povere”, continua Perin. E secondo la Corte Europea - che ammette discriminazioni sistemiche - l’Italia fallisce nel far superare questi limiti alle famiglie. «È in gran parte un problema di servizi sociali che non hanno i mezzi e la formazione necessaria. In una situazione che poteva non sembrare così grave il sistema si inceppa e da un momento all’altro una madre si ritrova senza il figlio», dice Perin. «Si può anche ricorrere e vincere a Strasburgo, ma questo non restituisce quei figli che nel frattempo si sono affezionati alle nuove famiglie».
Il tribunale «ha come oggetto della sua valutazione il benessere dei minori e spesso la condizione della sostenibilità economica svolge un ruolo preponderante», conferma l’avvocata romana Elisabetta Pezzi. «Quando ti trovi ai margini della società per questioni materiali la tua strada è in salita. Se poi sei fragile per assenza di rete lo diventi ancora di più. Nella mia esperienza sicuramente le famiglie straniere sono penalizzate perché non hanno una rete familiare, amicale e sociale come quelle italiane. Spesso le persone hanno, dunque, delle effettive fragilità. I servizi sociali da cui dovrebbero ottenere supporto, svolgono esclusivamente un ruolo di monitoraggio e vigilanza, ed è proprio da qui che spesso emergono relazioni a loro discapito».
Quanti sono i casi?
Secondo il ministero della Giustizia sono stati 902 i bambini adottati nel 2016; 955 nel 2017; 850 nel 2018. Non è possibile ricostruirne la nazionalità, per privacy e per la segretezza che accompagna le adozioni. E il tema, come insegna il caso Bibbiano, è incandescente.
Se un bambino è piccolo, ha meno di 7 anni - ancora più se ne ha meno di 3 - il procedimento di adozione è molto più veloce. Per i bimbi più grandi il destino è invece l’affidamento eterofamiliare o la casa famiglia.
«L’adozione internazionale è fallita, i bambini arrivano grandi e traumatizzati», dice l’avvocato Fachile. «Mentre ci si è accorti che esiste un altro canale di bambini non traumatizzati perché nati in Italia: quello delle mamme migranti. C’è un interesse fortissimo da parte delle famiglie che registrano la loro disponibilità presso i tribunali minorili: famiglie progressiste, benestanti e influenti. Anche per questo è una storia che non viene raccontata».
A Torino da anni si è formato un gruppo di avvocati, antropologi, etno-psicologi, mediatori che lavorano per interrompere questa catena di adozioni o allontanamenti dei figli delle donne migranti.
«Ormai si parla di sottrazioni improvvise e c’è una profonda incomprensione su come questo possa essere il supremo interesse del minore», dice Simona Taliani, antropologa e etno-psicologa. Il Centro Fanon, dove lavora, aiuta donne e famiglie a ricomporre il proprio vissuto da un punto di vista clinico e familiare.
Questione di classe
Tra le donne, conferma Taliani, la paura ormai c’è. «Non hanno esperienze pregresse e vengono letteralmente fatte a pezzi dal sistema». C’è razzismo o colonialismo? «Diciamo che ci sono ignoranza ed etnocentrismo che fanno vedere il mondo attraverso stereotipi: ma non c’è un progetto politico razziale», dice l’antropologa. «C’è la convinzione di lavorare davvero per il supremo interesse del minore. Quando ti dicono: ‘questo bimbo è bellissimo, guarda quanto sta bene da quando l’ho messo nella famiglia italiana’ è perché risponderà sempre di più al modello di bambino che l’operatrice desidera vedere». Ma «quando lavori in questo sistema e qualcuno dice ‘questo bambino è bellissimo’ devi già sentire puzza di marcio. Tutti i bambini sono bellissim»”.
C’è un’altra questione delicata: «Non si può dire perché sarebbe anticostituzionale, ma quello che interessa è anche il cambiamento di status di questi bambini: con l’adozione diventano italiani e vengono cresciuti in famiglie di classe sociale più alta di quella dei genitori, mentre le loro mamme spariscono tra permessi di soggiorno che scadono e il rischio di tornare clandestine».
Il Centro Fanon ha 100 nuovi casi complessivi all’anno: 20 sono di nuclei familiari. In totale, tra situazioni pregresse e nuovi casi, segue 40-45 casi di famiglie immigrate con minori sotto tutela o attenzionati dai servizi: le nazionalità sono diverse, con una prevalenza di madri sole provenienti dall’Africa occidentale (Nigeria, Gambia, Costa d’Avorio), ma anche da Marocco e Tunisia.
«All’inizio erano casi semplici, poi con l’aumento dell’arrivo delle donne migranti è diventato un continuo di segnalazioni di allontanamento», racconta l’avvocata di Torino Alessandra Lanzavecchia. Il suo punto di vista è più positivo: «Ora c’è più comprensione anche da parte dei giudici, ma abbiamo dovuto lavorare tanti anni».
Madri diverse
I problemi, negli innumerevoli casi che ha seguito, sono principalmente due: «Da una parte non si riesce a valutare il modello di madre africana perché lo si assimila a quella italiana. Dall’altra per tanto tempo il sistema ha lavorato con l’idea che tutelare il minore voleva dire allontanarlo dalla famiglia piuttosto che fornire gli strumenti per farla diventare più forte».
«Leggevo le perizie in cui si accusavano le madri di non essere accudenti in ragione di comportamenti che io conoscevo. E come interprete non potevo intervenire», racconta Precious Ugiabe, mediatrice culturale da 25 anni in Italia. «Ho lavorato al tribunale dei minori fino al 2001». Poi non ce l’ha fatta più.
«Prima che fosse una moda e che tutte le mamme e i papà italiani andassero a fare i corsi per mettersi la fascia, le madri africane che si legavano i figli sulla schiena erano ritenute delle incoscienti», racconta Precious. «Come fanno ad accorgersi se il bambino rigurgita? - si pensava».
Il rapporto tra madre e figlio per gli occidentali «è essenzialmente basato sullo sguardo, ma per gli africani passa anche da molti altri canali. La madre africana dà da mangiare al figlio quando ha fame, non lo mette a tavola tre volte al giorno: non è mancanza di accudimento, è perché in famiglia e nel villaggio si fa così. E se una madre dà al figlio di pochi di mesi del peperoncino non è pazza: anche lei a pochi mesi lo prendeva».
Certo, il sistema può anche funzionare. Ma deve essere preparato. Come nel caso di Blessing (nome è di fantasia): a raccontare la sua storia è Tania Castellaccio, responsabile dell’Area Accoglienza Donne della cooperativa Dedalus di Napoli. “Quando lei e i suoi tre figli sono arrivati alla casa per donne maltrattate Fiorinda sono apparsi subito fortemente danneggiati dai vissuti di violenza e bisognosi di molto supporto”, dice. Ma il fatto di essere stati “presi in carico” da un sistema antitratta preparato e da operatrici specializzate in violenza di genere ha permesso il lieto fine. Quello che troppo spesso invece non c’è.
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