- La baruffa digitale che nell’arco di poche ore e altrettanti pochi tweet ha posto fine alla prospettiva del partito unico del centro, se da un lato segna il totale superamento delle vecchie liturgie della politica, dall’altra ne stabilisce di nuove.
- Quelle antiche, adatte a una politica analogica, con dei partiti di massa, non a caso chiamati anche partiti-chiesa, hanno lasciato il campo ai tempi, linguaggi e formati di una politica consumata in streaming e in tempo reale da nuovi leader-social.
- Anche in un partito quale il Pd, dove i congressi sono ancora luoghi dove si discute la linea del partito, la recente vicenda di Elly Schlein dimostra che il faticoso percorso congressuale e il voto degli iscritti, può essere ribaltato da un rispettabile quanto immateriale “popolo delle primarie”. Estrema forma di partecipazione democratica o trasformazione verso un modello plebiscitario di leadership?
Pochi scambi di non più di 280 caratteri, meglio se meno, poiché più ficcanti ed efficaci, preferibilmente in forma di battute, sentenze, quando non veri e propri insinuazioni o insulti. Matteo Renzi e Carlo Calenda hanno celebrato via Twitter la fine di un progetto politico che, sebbene minoritario e marginale, ha animato la scena politica degli ultimi mesi e molti talk show. Con tanti saluti alla prospettiva del partito unico del Terzo Polo, all’agognata terra promessa del grande centro, agli speranzosi elettori (pochi) che l’hanno votato e ai facoltosi finanziatori (pochissimi) che l’hanno sostenuto con donazioni di 100mila euro.
Un qualcosa di già visto, guarda caso con protagonisti in parte simili, nei giorni in cui nell’agosto scorso si decideva l’alleanza elettorale da contrapporre alle destre. Accordi, baci, tradimenti e conseguenti celebrazioni, accuse e anche sfottò, scambiati da protagonisti istituzionali in un sincopato dialogo pubblico online, senza il benché minino rispetto né del decoro del linguaggio della politica, né degli elettori.
È la nuova forma del confronto nella stagione della politica digitale e del leader always-on. Cinguettii e post capaci di segnare svolte e fasi, che hanno preso il posto di procedure analogiche molto più lente e sicuramente faticose quali congressi, riunioni, vertici che, oltre a svolgersi in spazi propri e spesso riservati, lasciavano il tempo per la riflessione, il confronto e, nel caso, la revisione.
Le cronache politiche degli anni passati sono piene di momenti del genere, organizzati e allestiti secondo i rituali di una religione civile oggi tramontata e che, come tutte le religioni, prevedeva riservatezza e anche segretezza quali elementi fondamentali del credo politico. Una ritualità proporzionale all’importanza del momento.
Congressi e rituali
L’apertura al centro-sinistra e all’ingresso del Psi nella maggioranza, fu sancita nel congresso di Napoli della Democrazia cristiana del 1962 da una fluviale relazione introduttiva di Aldo Moro di oltre sei ore.
Poco più di 10 anni dopo, un’altra svolta epocale della politica italiana quale il compromesso storico fu annunciato e argomentato da Enrico Berlinguer, a una base quanto mai perplessa, con una serie di articoli pubblicati sul settimanale del partito Rinascita. Ed è stato un altro congresso particolarmente vivace a segnare, nel 1976, l’ascesa al vertice del Partito socialista di Bettino Craxi e ad avviare il nuovo corso socialista che si sganciava dalla prospettiva dell’alternativa di sinistra con il Pci a favore di una alleanza stabile con la Democrazia cristiana. Per non parlare della tensione e dello psicodramma che hanno accompagnato il ventesimo congresso del Partito comunista che, nel 1991 a Rimini, ne ha sancito lo scioglimento.
Svolte storiche dellba recente storia politica italiana, non certo comparabili con l’eclissarsi di una meteora quale l’ipotesi del partito unico di Renzi e Calenda. Ma anche eventi politici “minori” hanno seguito nel tempo i rituali della politica. Si trattasse del preambolo Arnaldo Forlani, che nel 1980 ha chiuso la stagione della solidarietà nazionale o, e qui già il nome racconta che qualcosa stava cambiando, del “patto della crostata” (copyright Francesco Cossiga) che nel 1997 ha sancito l’accordo sulle riforme istituzionali siglato a casa di Gianni Letta fra Massimo D’Alema, Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Franco Marini.
Smaterializzare la politica
La smaterializzazione della politica e la sovversione dei suoi tempi e luoghi, non sono però una novità odierna. Bisogna ancora una volta tornare a Silvio Berlusconi che, nel febbraio 1994, ha fondato un partito con un appello televisivo registrato nel suo studio e trasmesso alle principali agenzie e telegiornali.
Un set, un regista di giochi e varietà televisivi (Maurizio Spagliardi), un trucco pubblicitario (la calza davanti all’obiettivo) e un discorso che riprendeva in molti punti l’appello fatto nel 1963 a Tribuna politica dal segretario del Partito democratico di unità monarchica italiano, già sindaco di Napoli e presidente del Napoli calcio, Achille Lauro. Il partito televisivo nasceva live davanti agli occhi dei suoi elettori. E i militanti? Le sezioni? Lo statuto? Arriveranno. Per il momento accontentatevi dei promotori, dei club e del programma istituzionale stilato da Giuliano Urbani. E sempre in diretta tv si sarebbe consumata, nel 2010, la scissione del Popolo della Libertà con il famoso «che fai, mi cacci?» pronunciato da Gianfranco Fini, che apriva alla nascita di Futuro e libertà.
Per tornare all’oggi, la baruffa digitale che nell’arco di poche ore e altrettanti pochi tweet ha posto fine alla prospettiva del partito unico del centro, se da un lato segna il totale superamento delle vecchie liturgie della politica, dall’altro ne stabilisce di nuove.
I leader-social
Quelle antiche, adatte a una politica analogica, con dei partiti di massa, non a caso chiamati anche “partiti-chiesa”, officiate da leader circondati da un’aura di rispetto e riservatezza, hanno lasciato il campo a tempi, linguaggi e formati di una politica consumata in streaming e in tempo reale da nuovi leader-social che all’autorevolezza antepongono la vicinanza, al carisma la simpatia.
Renzi e Calenda ne rappresentano i due idealtipi italiani. Salvini e Meloni anch’essi molto attivi nella social sfera hanno comunque alle spalle partiti strutturati, apparati e corpi dirigenti a cui rispondere. Renzi e Calenda sono primattori che, liberi da ogni vincolo di appartenenza e, ancor meno, ideologico, si muovono secondo pratiche di engagement e consolidamento delle loro personalissime basi (virtuali) di consenso.
Che si tratti di una conseguenza del progressivo diffondersi delle logiche dei social media e della piattaformizzazione anche della sfera politica o che, all’opposto, queste offrano un modo per cercare di arginare una decadenza endogena dei sistemi della rappresentanza e delle forme di partecipazione è un nodo arduo da sciogliere.
Il fatto che tendenza comune ai partiti digitali – quali l’M5s – che avevano cercato di fare della rete la nuova infrastruttura organizzativa e partecipativa in nome di una democrazia elettronica aperta e orizzontale, sia una deriva plebiscitaria e iperleader personalistici ed accentratori, dice quanto complicato e insidioso possa rivelarsi il processo di rinnovamento delle forme della politica.
Senza andare così lontano, ci si potrebbe chiedere chi ha approvato il netto cambio di linea intrapreso da Giorgia Meloni dopo la nomina a presidente del Consiglio, rispetto a quanto promesso in campagna elettorale e scritto nel programma.
I tempi della politica digitale e una ingannevole idea di trasparenza che impone l’abolizione di ogni filtro non sono più conciliabili con vertici, riunioni, direzioni. D’altronde è da anni che i congressi si sono trasformati da momenti di confronto e scontro fra linee politiche a incoronazioni del vincitore annunciato. E anche in un partito come il Pd, dove i congressi sono ancora luoghi dove si discute la linea del partito, la recente vicenda di Elly Schlein dimostra che il faticoso percorso congressuale e il voto degli iscritti, può essere ribaltato da un rispettabile quanto immateriale “popolo delle primarie”. Estrema forma di partecipazione democratica o trasformazione verso un modello plebiscitario di leadership?
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