La Russa e Mollicone sostengono che la realtà sulla strage alla stazione di Bologna sia diversa da quanto accertato in giudizio. Disconoscere la valenza della verità processuale con modalità che deragliano dai binari del diritto può dirsi un'alterazione delle regole democratiche. Significa legittimare un “tutti contro tutti”. Ed è un segnale preoccupante per il nostro sistema democratico.
La commemorazione di una strage dovrebbe essere un momento dedicato alle vittime, e non il tentativo più o meno palese di sovvertire le conclusioni raggiunte dalle relative sentenze. Eppure è ciò che è accaduto, a opera di esponenti di Fratelli d’Italia, in occasione del ricordo della strage alla stazione di Bologna.
Ignazio La Russa ha parlato di «vile attentato» che «le sentenze hanno attribuito a una matrice neofascista», quasi a insinuare che la realtà sia diversa. Federico Mollicone è stato ancora più esplicito nel contestare le conclusioni dei giudici.
«Non possiamo accettare come dogmi sentenze che non stanno rispettando le garanzie di un giusto processo», ha detto il deputato di FdI. L’obiettivo è «trovare la verità storica per tutti gli italiani» – ha proseguito – «chiederemo a Nordio, con un’interrogazione parlamentare, di verificare ciò che sto denunciando».
Premesso che Mollicone non spiega quali principi del giusto processo sarebbero stati violati – tanto da far sorgere il dubbio che ne abbia davvero contezza – e vuole chiedere al ministro della Giustizia di esercitare poteri di verifica che quest’ultimo non ha – per sentenze passate in giudicato potrebbe intervenire solo la Corte di Strasburgo – occorre fare chiarezza su un profilo che emerge dalle dichiarazioni di entrambi gli esponenti politici: il rapporto tra verità storica e verità processuale.
La verità processuale
La verità processuale è quella cui si giunge tramite il processo, vale a dire mediante una serie di attività svolte da giudici indipendenti, dirette alla formulazione di un giudizio basato sulla valutazione empirica di un’ipotesi accusatoria.
Il pubblico contraddittorio tra accusa e difesa, attraverso il confronto fra le due opposte versioni dei fatti, permette al giudice di selezionare e verificare gli elementi probatori. Le regole processuali circoscrivono il perimetro all’interno del quale ricercare la verità, consentono di risolvere eventuali discrasie nella ricostruzione degli eventi e ne garantiscono l’accertamento pertinente e completo. Dunque, la decisione finale rappresenta il risultato che più probabilmente corrisponde alla verità. Risultato che spiega nel modo più logico e coerente l’insieme delle risultanze conseguite e che è confermato dal maggior numero di prove raccolte.
Il valore del giudicato
Quando si sono esauriti i mezzi di impugnazione, le sentenze diventano irrevocabili (art. 648 cpp). Il giudicato, cristallizzando la “verità” formatasi mediante l’accertamento nei tre gradi del giudizio, è lo strumento che pone fine alla ricerca della verità stessa.
Non sempre la verità processuale equivale a quella storica. Ma è sbagliato affermare che il processo sfoci in qualcosa di diverso e avulso dalla realtà. Le citate regole, cui il giudice deve attenersi, rappresentano non solo requisiti per la validità delle decisioni giudiziarie, ma anche vere e proprie condizioni di verità delle stesse. La controllabilità dell’attività giudiziale, e del rispetto di tali regole, attraverso i diversi gradi di giudizio costituisce la garanzia di una ragionevole ricognizione dei fatti.
Il riconoscimento delle sentenze
La sentenza definitiva, essendo l’ultima di una serie di decisioni tese ad accertare la verità, sancisce la verità stessa sul piano del diritto. Lo storico può indagare all’infinito. Il giudice deve fermarsi e pronunciare, nei termini fissati dalla legge, la parola finale, fatta salva l’eventuale revisione in ogni tempo delle sentenze di condanna, se emergono nuove prove (art. 629 cpp e ss.).
La Costituzione attribuisce ai giudici il compito di amministrare la giustizia «in nome del popolo» (art. 101), in base alla tripartizione dei poteri. Il patto sociale su cui si fonda lo stato di diritto impone ai cittadini di accettare la sentenza passata in giudicato come verità convenzionale, affinché sia garantita la certezza dei rapporti giuridici e non residuino spazi per forme di giustizia privata.
Che un alto rappresentante delle istituzioni o un esponente del maggiore partito italiano disconoscano la valenza di una pronuncia definitiva, senza provarne l'erroneità o la falsità nel rispetto dei principi del processo, può dirsi un'alterazione delle regole democratiche.
In altre parole, mettendo in dubbio l’autorità del giudicato con modalità che deragliano dai binari del diritto, essi legittimano chiunque a farlo, dai soggetti riconosciuti in terzo grado come terroristi o mafiosi al cittadino qualunque. Il rischio è che si produca una sorta di “tutti contro tutti”, con la conseguente rottura del patto sociale di cui si è detto. Ed è un segnale preoccupante per il nostro sistema democratico.
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