«Per la responsabilità della mia funzione non posso che chiedere pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori, ma anche per le superficialità e persino le vanità che hanno ostacolato la ricerca della verità sulla strage»
Trent’anni dopo la strage di via D’Amelio, molti anni dopo che si è concluso il processo senza portare alla verità sulla morte di Paolo Borsellino, ucciso dalla mafia ma non solo il 19 luglio del 1992, il proguratore antimafia Giovanni Melillo chiede scusa in un’intervista al Corriere della Sera.
Quello che, ricorda il giornalista Giovanni Bianconi, fu una sentenza ha definito «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiani», dopo l’assoluzione e le prescrizioni nel processo ai poliziotti accusati di calunnia: «A prescindere dalle responsabilità dei singoli, che si possono valutare soltanto nelle sedi istituzionali», ha risposto Melillo, «per la responsabilità della mia funzione non posso che chiedere pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori, ma anche per le superficialità e persino le vanità che hanno ostacolato la ricerca della verità sulla strage. Sono scuse che porgo con rispetto e profonda consapevolezza ai familiari delle vittime e alle persone che, innocenti, sono state trascinate nel baratro della condanna per quel delitto. Gli uni e le altre sanno assai meglio di noi che il tempo non lenisce quelle ferite, se tante domande restano senza risposta».
Il procuratore sembra aprire all’ipotesi che sul caso si lavorerà ancora: «È importante ricordare ciò che avvenne, per conservare l’ammirazione e la gratitudine che il paese deve alle vittime di quel terribile delitto. Soprattutto per riconoscere l’enorme debito di verità e giustizia che ancora oggi abbiamo verso le vittime e i loro familiari». Un debito, dice, «che impone di lavorare in silenzio e con serietà per placare quella sete insoddisfatta di verità e di evitare la retorica e la ritualità di celebrazioni che, seppure sentite e commosse, inevitabilmente rischiano di esacerbare il dolore di chi non può non guardare con diffidenza e fastidio alle formali promesse di impegno succedutesi negli anni».
La posizione della famiglia
Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice ucciso, in una lunga intervista all’Espresso uscita qualche settimana fa, ha spiegato che non avrebbe partecipato alle commemorazioni. Posizione che la famiglia porta avanti da anni: «Ho deciso che è inutile andare allorquando ho avuto chiara certezza che personaggi di primo piano delle istituzioni non avevano fatto il loro dovere.
La piena consapevolezza di questo l’ho avuta quando le prime sentenze hanno documentato l’esistenza del più grande depistaggio nella storia della Repubblica italiana oggi noto a tutti, quello relativo alle indagini sulla strage di via D’Amelio, per la quale era stato costruito un finto pentito ed erano stati condannati degli innocenti». La moglie di Borsellino, Agnese Piraino Leto (sua madre), ha ricordato, «aveva rifiutato i funerali di stato. Allo stesso modo, noi figli abbiamo deciso di non partecipare mai più a cerimonie e celebrazioni di stato finché non sarà chiarito, anche fuori dai processi penali, tutto quello che è accaduto».
La famiglia chiede altro: «Per me fare memoria è avere risposte in termini di cose concrete, che ci avvicinino alla verità. Fare memoria non è dire vuote parole».
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