- Umberto Bossi era veramente un caso unico: non aveva passato, non aveva cultura, non aveva esperienze, non aveva mai sofferto; non sapeva cos’era una busta paga perché – uno dei pochi nella zona del pianeta Terra più ricca di lavoro, non aveva mai lavorato.
- Aveva visto il nord, in particolare la Lombardia, degli anni Ottanta come un luogo in cui il miracolo economico era finito, e restava una vasta landa piena di tristezza. Bossi aveva capito una cosa essenziale: il nord aveva paura, soprattutto del futuro.
- Bossi è uno dei pochi che ha visto avverarsi il suo sogno di gioventù; la sua Lega è al governo, maneggia molto grano e molte banche e non ha avuto neanche bisogno di usare il Caterpillar.
Umberto Bossi, nativo di Cassano Magnago (Va), divenne senatore, per il rotto della cuffia, nel 1987, all’età di 46 anni, unico eletto di una sconosciuta Lega lombarda che totalizzò lo 0,42 per cento nazionale, ma ottenne un ottimo risultato (100.000 voti) nel collegio di Varese. Cinque anni dopo, nel fatidico 1992 di Mani pulite e delle stragi in Sicilia, la Lega era il primo partito a Milano, avvenimento che venne paragonato alla vittoria dei barbari nella capitale morale d’Italia e catapultò Umberto Bossi, insieme al magistrato Antonio Di Pietro (un altro bel tomo, ripensandoci), alla carica di nuovi padri di una nuova Repubblica che non si sapeva cosa sarebbe stata, ma di cui si sentiva nell’aria l’esigenza.
Senza passato
L’Umberto era veramente un caso unico: non aveva passato, non aveva cultura, non aveva esperienze, non aveva mai sofferto; non sapeva cos’era una busta paga perché – uno dei pochi nella zona del pianeta Terra più ricca di lavoro, non aveva mai lavorato. Ma aveva una dote innata: sapeva osservare; ed era intraprendente. Iscritto alla facoltà di Medicina di Pavia senza dare esami, un giorno disse ai suoceri che si era laureato e si fece regalare un’Alfa Romeo Giulia gran turismo, con cui prese a «battere il territorio». Cercava fortuna e osservava.
Aveva idee forti che lo guidavano? Sì, come dimostrano i testi che scrisse per il complessino cui partecipava, rock slow: «Noi siam venuti dall’Italy/ Abbiamo un piano per far la lira/ Entriamo in banca col Caterpillar/ e ci portiamo via il grano». Sogni comuni della gioventù ribelle di allora, orientata verso Bonnie e Clyde, Che Guevara, la banda Cavallero, Diabolik.
Babbini
Lui girava i bar e i circoli, affiggeva manifesti, macinava chilometri con il fido autista Babbini. Di notte cantavano a squarciagola: Io sono il vento, sono la furia che passa e che porta con sé (Gino Latilla, Sanremo 1959) e quando aveva finito le sigarette, scendeva lui stesso a comprarle, mica Babbini. Una volta incontrai un suo fan che mi riferì l’episodio: «Capisci? L’ho visto di persona. È sceso lui, mica ha mandato l’autista. Capisci che uomo è l’Umberto?»
Babbini era uno che avrebbe potuto essere un pilota di Formula 3 se non avesse avuto una stazza incompatibile con l’abitacolo; Bossi era spavaldo anche nelle situazioni difficili, diceva spesso di essere come Carlos Monzón prima dell’incontro con Nino Benevenuti: «Tranquilo, no es problema». Era simpatico e popolare, promosse la linea di profumi “dur” e la Lega-che c’ha-il-manico, portava la canottiera di cotone dei muratori e quindi la gente poteva pensare che lui fosse un lavoratore manuale, si inventò miss Padania, i gazebo, Highlander, la Catalogna, la Scozia, il parlamento di Mantova, il tricolore da mettere nel cesso ( Beppe Grillo non è stato niente in confronto).
Il nord degli anni Ottanta
Ma ora, basta con gli aneddoti. Qui ora dobbiamo rendere merito alle qualità del Bossi. Aveva visto il nord, in particolare la Lombardia, degli anni Ottanta come un luogo in cui il miracolo economico era finito, e restava una vasta landa piena di tristezza. L’industria, che aveva attratto quattro milioni di immigrati dal sud negli anni del boom, chiudeva e licenziava.
Gli espulsi cercavano fortuna nel commercio, nell’artigianato, scoprendo che c’era una bestia nera con cui afre i conti: le tasse, i balzelli, la burocrazia. Il territorio era diventato piccolo, per accogliere tutti quei meridionali spaesati che adesso rivendicavano case popolari, insegnavano nelle scuole, facevano i concorsi pubblici, toglievano lavoro agli autoctoni, vivevano di assistenza e di graduatorie; e poi c’era l’Iva, c’erano quelli della finanza – tutti del sud, eh – che ti fermavano per chiedere la bolla d’accompagnamento, che ti controllavano la licenza del bar, e i burocrati che non volevano farti produrre il latte e poi la delinquenza, portata dai terroni, naturalmente e all’orizzonte legioni di “vu cumprà”, allora si chiamavano così. Bossi aveva capito una cosa essenziale: il nord aveva paura, soprattutto del futuro.
Paura del futuro
Umberto Bossi, pur così incolto – o forse proprio per quello: figlio inconsapevole del flâneur di Benjamin e dei Bouvard e Pécuchet di Flaubert, è stato un genio del marketing politico; ai tempi delle convergenze parallele, del compromesso storico, del cauto riformismo, delle larghe intese, rovesciò il tavolo e si inventò la Padania, i Celti, la mitologia di un territorio in cui esistevano una volta uomini liberi e fieri e che oggi vivevano umiliati da Roma, dal sud. Si inventò i “terroni”, parola che prima non si poteva che sussurrare; si inventò una diversa storia d’Italia, in cui l’Unità fu una truffa ai danni dell’unica buon idea risorgimentale, il federalismo. Tenne comizi lunghi ore per spiegare la nefasta influenza di Napoleone Bonaparte in Italia, causa di tutti i mali.
Si inventò la rude razza padana – pagana – e la sua superiorità sulle altre (questa insistenza di razza e territorio ricordò, purtropo a pochi, gli inizi del caporale austriaco Adolf Hitler), si inventò un nord pronto a una rivolta che non esisteva; si inventò la nostalgia di un passato felice e soprattutto virile (calcava molto su questo aspetto). Si inventò addirittura una religione, l’ampolla dell’acqua del Monviso «pura non inquinata dalla mafia»; si inventò le ronde padane (che vennero ufficializzate dal governo), il parlamento del nord, i trecentomila bergamaschi pronti a marciare armati su Roma (se il capo magnanimo non avesse provveduto a fermarli); fece un patto con Silvio Berlusconi poi fece cadere il suo governo insultandolo e accusandolo (memorabile una serie di notevole giornalismo investigativo comparsa sul quotidiano La Padania nel 1995) di essere un fascista, il capo della mafia, trafficante di droga, riciclatore di denaro sporco. Poi, come tutti si ricordano, i due fecero la pace e, insieme, governarono l’Italia per una ventina d’anni, come servo-padrone.
Un ragazzo fortunato
Ripensando a quel periodo così apparentemente assurdo – perché mai la regione più ricca dell’occidente, ricca di cultura, di industria, di un cattolicesimo riformista, di sindacati, di memoria antifascista si consegnò allegramente ai barbari? – occorre anche ricordare che Bossi fu molto fortunato. Ebbe vita facile. Nessuno, di fatto, si oppose a lui.
Non la sinistra, che si accorse subito che la sua base elettorale la pensava come lui; non la borghesia industriale che si vuole liberale, che si accorse subito che «quello lì ci può essere utile» per tenere ordine. Bossi ripagò sempre la fiducia: nulla delle sue azioni andò mai contro il padronato, il potere, gli interessi. Piuttosto, si accomodò a tavola.
Per gli amanti degli intrighi, occorre ricordare che Bossi fu promotore, insieme all’esimio professore filosofo Gianfranco Miglio di un progetto di revisione costituzionale che avrebbe diviso l’Italia in tre regioni autonome (Padania, Etruria e Meridione) e che al sud la mafia prese molto sul serio questa offerta, che avrebbe comportato un Regno della mafia.
Il periodo è legato alle grandi stragi che scossero il paese, su cui ancora adesso magistrati e storici si interrogano. E resta inspiegabile perché Bossi, dopo aver proposto la grande idea, l’abbia (fortunatamente) abbandonata. A suo modo. Un giorno si presentò e disse: «Il professor Miglio è una scoreggia nello spazio». Fu, forse il suo momento più alto da statista,
Di tutti gli aspetti della sua carriera politica, colpita nel 2004 da un brutto ictus, avvenuto in stile prima Repubblica, e conclusa nel 2012 quando Bossi (e la sua famiglia, il famoso figlio, “il trota”) venne travolto da una banalissima corruzione, dimostrando che la Lega era uguale a tutti gli altri partiti che combatteva, se non peggio. Il Senatur lasciò le cariche e il potere, che passò nelle mani di quel Matteo Salvini che oggi guida il più grande partito italiano, su posizioni che sono sotto gli occhi di tutti, e che, nonostante ciò, continuano ad attrarre il venti per cento di elettori.
Molti, anche nella Lega – diventato un normalissimo partito di potere – rimpiangono i tempi dell’Umberto, del suo intuito. E ne hanno ben d’onde: è stato lui a farli ricchi. Prima, non erano nessuno.
Come eravamo
Gli ottant’anni del Senatur sono importanti; tempo di bilanci. E il primo che mi viene in mente è che Bossi è uno dei pochi che ha visto avverarsi il suo sogno di gioventù; la sua Lega è al governo, maneggia molto grano e molte banche e non ha avuto neanche bisogno di usare il Caterpillar; e lui tutto sommato è un padre della Patria.
Mi dispiace non unirmi ai brindisi. Credo che Umberto Bossi dovrà essere anche ricordato come la persona che ha reso ufficiale il razzismo in Italia, che la sua influenza sia stata nefasta, che le sue idee siano state orribili e che sono purtroppo difficili da cancellare dalla nostra conversazione politica, che la sua amministrazione del potere sia stata losca. Salvini non è una sua degenerazione, come si dice ora. È la sua conseguenza.
L’unica differenza tra i due è che l’Umberto, agli inizi, aveva una certa innocenza.
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