La regione ha un indice Rt superiore a 1,5 e quasi 6mila contagiati. Eppure a preoccupare il governo e il ministro della Salute Roberto Speranza, più che il diffondersi della pandemia, è la condizione di una rete ospedaliera e di cura che da decenni rappresenta un bancomat per centri di potere politico e ‘ndrangheta
- La Calabria ha un indice Rt sopra 1,50. 5.830 positivi e 199 ricoverati, di cui 10 in terapia intensiva, ma ad allarmare il ministro della Salute Roberto Speranza e il governo è la condizione attuale della rete ospedaliera e di cura.
- Negli ultimi vent’anni, il diritto alla salute dei calabresi è stato minato da tagli e ristrutturazioni selvagge. Ospedali chiusi, il 40,7 per cento di posti letto tagliati, ridotti a meno di due ogni mille abitanti (in Italia la media è di 3,2, quella europea è fissata invece a 5). Decimato di 4mila unità il personale sanitario, 15 per cento di medici in meno, 13 per cento di infermieri.
- In queste condizioni chi può va a curarsi fuori. La Calabria, secondo i dati della Fondazione Gimbe, è la regione che più contribuisce alla migrazione sanitaria passiva, accumulando quasi 300 milioni di debito con realtà come la Lombardia e il Veneto.
Calabria zona rossa. Off limits, ma per malasanità. Chi vive tra la Sila e l’Aspromonte lo sa bene, più del virus fa paura lo sfascio della sanità. Aziende e ospedali da decenni diventati bancomat e centri di potere per le voraci clientele della politica. Senza distinzioni di bandiere e schieramenti. E poi la ‘ndrangheta che in cliniche, ospedali e laboratori affonda le mani da anni. In questa terra sfortunata, due aziende sanitarie sono state commissariate per infiltrazioni mafiose, e un medico prestato alla politica, Francesco Fortugno, è stato ucciso nel 2005 perché metteva in discussione gli equilibri di potere nel sistema sanitario. E oggi il Covid.
I dati
La Calabria, 1,9 milioni di abitanti, ha un indice Rt sopra 1,50. 5.830 positivi e 199 ricoverati, di cui 10 in terapia intensiva, ma ad allarmare il ministro della Salute Roberto Speranza e il governo è la condizione attuale della rete ospedaliera e di cura. «Qui se aumentano i numeri dell’avanzata dell’epidemia, altro che centri anti Covid, avremo bisogno degli elicotteri per portare gli ammalati altrove». Angelo Sposato è il segretario regionale della Cgil, da giorni ha lanciato l’allarme sull’emergenza Covid e sulla capacità di reazione della rete sanitaria calabrese. «La verità – ci dice – è che in questi otto mesi di emergenza qui non si è mossa una foglia. La giunta regionale non è riuscita neppure a spendere i soldi arrivati da Roma, 100 milioni per il Covid e 80 per il decreto Calabria. Otto mesi per mettere su solo sei posti di terapia intensiva, neppure uno al mese. Rispetto ad altre realtà forse abbiamo meno contagi, ma una capacità di cura dieci volte inferiore. Qui si gioca allo scaricabarile tra regione e la struttura commissariale di governo sulla sanità. Dicono che i posti in terapia intensiva e sub–intensiva sono 156, ma non c’è chiarezza sul dove sono, e su quanti infermieri specializzati sono disponibili. Stesso discorso per i tamponi, ancora in numero bassissimo, con le strutture pubbliche che non ce la fanno a processarli».
La seconda ondata
La Calabria arriva alla seconda ondata della pandemia impreparata, disarmata e politicamente fragile. La sua sanità è commissariata da un decennio, dopo la scomparsa della presidente Jole Santelli, giunta regionale e consiglio sono in carica solo per la normale amministrazione. A reggere le sorti della Cittadella (il faraonico palazzo della regione a due passi da Catanzaro), è Nino Spirlì, mai eletto consigliere regionale, ma voluto dalla Santelli come vicepresidente della giunta. Ex berlusconiano (ha fondato un circolo di Forza Italia intitolato al cane Dudù), un passato di autore tv per Mediaset, transitato nelle file di Salvini ha ingaggiato una sua personale battaglia contro il “politicamente corretto”. Per lui il gay è «un ricchione» e il nero è un «negro».
Ha scarsa dimestichezza con i problemi della sanità e il governo della regione, limitati rapporti con il governo nazionale, e scarsissimi con la struttura del commissario per l’emergenza coronavirus, Domenico Arcuri. Due giorni fa ha scritto una lettera al presidente Sergio Mattarella per protestare contro la proroga del commissariamento della sanità calabrese. Con l’avvicinarsi della decisione del governo di inserire la Calabria tra le regioni rosse, ha mosso mari e monti per scongiurare una ipotesi giudicata al pari di una iattura. Un lavorio che ha impegnato anche diversi parlamentari del centrodestra, e che ha creato un piccolo giallo sui numeri. Quelli dei ricoverati in terapia intensiva, essenziali per calcolare l’indice Rt e le misure conseguenti per affrontare la pandemia.
Nel pomeriggio di martedì, mentre Conte e i ministri limavano il Dpcm, arrivavano i dati dalla Calabria: i ricoverati in terapia intensiva erano 26, scritto nero su bianco sul Bollettino regionale. Poche ore dopo lo scenario cambiava e i ricoverati scendevano a dieci. È bastato fare una distinzione tra pazienti intubati e non intubati. Solo i primi saranno oggetto del conteggio finale. «Se non fosse una cosa terribilmente seria – attacca il consigliere regionale del Pd, Carlo Guccione – sembrerebbe di essere su Scherzi a parte. La situazione è gravissima, qui non c’è certezza neanche sui dati». Zona rossa o arancione, la battaglia non è sui colori, ma sulla sostanza del chi governa la sanità in Calabria. Proprio ieri sul tavolo del governo l’ennesimo decreto Calabria destinato a prorogare il commissariamento da 24 mesi fino a 36. L’attuale commissario, il generale dei carabinieri Saverio Cotticelli, ha annunciato le sue dimissioni da tempo, sarà sostituito da un nuovo commissario e da due vice, che avranno a disposizione 40 milioni per l’emergenza Covid e 60 per due anni con lo scopo di ridurre il gap. Il governo rimprovera al generale Cotticelli e alla regione di «non aver raggiunto gli obiettivi fissati», sottolinea l’entità del disavanzo di 160 milioni, e prende atto che «non risulta trasmesso il programma operativo Covid».
La verità è che ormai tra il Tirreno e lo Jonio, il “gap” sanitario è una vera e propria voragine in termini di posti letto, livelli minimi assistenziali e rete ospedaliera. Negli ultimi vent’anni, il diritto alla salute dei calabresi è stato minato da tagli e ristrutturazioni selvagge. Ospedali chiusi, il 40,7 per cento di posti letto tagliati, ridotti a meno di due ogni mille abitanti (in Italia la media è di 3,2, quella europea è fissata invece a 5). Decimato di 4mila unità il personale sanitario, 15 per cento di medici in meno, 13 per cento di infermieri. In queste condizioni chi può va a curarsi fuori. La Calabria, secondo i dati della Fondazione Gimbe, è la regione che più contribuisce alla migrazione sanitaria passiva, accumulando quasi 300 milioni di debito con realtà come la Lombardia e il Veneto. Un vero disastro, denunciato da una serie di associazioni della società civile e dai sindacati. «L’emergenza Covid – scrivono in un documento, primi firmatari Rubens Curia e don Giacomo Panizza – ha trovato la sanità calabrese sfiancata da un commissariamento governato prevalentemente dal ministero dell’Economia impegnato in un risanamento che non è stato raggiunto». Fornitori non pagati, «medicina territoriale desertificata», infermieri tagliati, «eppure i fondi per le assunzioni ci sono». Fate presto, è l’appello finale, «non possiamo trasformare i nostri ospedali in fortini inespugnabili da parte dei pazienti no Covid. In questi ultimi mesi la mortalità per infarto è triplicata». Vanno così le cose nella Calabria, zona rossa, ma per malasanità.
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