Abbiamo tutti il dovere «di disporci all’ascolto di fronte a una realtà, quella giovanile, divenuta ancora più complessa a causa degli inediti problemi che l’emergenza sanitaria ha portato con sé», come ha ricordato il presidente della Repubblica nel discorso del giuramento, «la via maestra è il confronto», lo sforzo «che occorre fare, soprattutto quando le cose non vanno per il meglio, è cercare di individuare modalità più idonee per contemperare il diritto a manifestare con il dovere delle Forze di polizia di far rispettare la legge».

Ieri, durante le informative di Senato e Camera «sui fatti occorsi in recenti manifestazioni di studenti», hanno parlato due ministre dell’Interno. Da un lato Luciana Lamorgese che distilla moderazione e prudenza, a parole, sull’imperativo di ascoltare gli studenti che manifestano. Dall’altro Luciana Lamorgese che ricostruisce le giornate del 23 e del 28 gennaio scorso, con il loro carico di manganellate ai ragazzi e teste spaccate, rispolverando accuse vintage agli «anarchici e agli esponenti dell’area antagonistica», quelli legati «ai centri sociali».

A un certo punto, parlando dei fatti di Torino, spiega che il centro sociale «Askatasuna», noto per l’attivismo No Tav, è «espressione locale del movimento di Autonomia operaia», lettura un bel po’ scolastica, di probabile derivazione da qualche funzionario solerte, ma soprattutto nostalgico. E c’è anche l’apposito allarme preventivo: la ministra informa che per il primo appuntamento di Roma, organizzato dai movimenti Lupa, Osa e Fronte della gioventù comunista, c’erano «attività informative di polizia» che riferivano della «precisa intenzione di alcuni partecipanti appartenenti ai centri sociali capitolini e aderenti a gruppi di matrice anarchica di trasformare la stessa manifestazione in un’occasione di scontro fisico con la polizia».

Dunque i poliziotti erano preparati: perché la situazione è sfuggita di mano? La risposta non è arrivata. Le forze dell’ordine che il 9 ottobre 2021 a Roma avevano visto bene chi dovevano lasciare andare fino alla sede della Cgil, per poi lasciargliela assaltare e devastare, qui, benché preparate, non sono state in grado di contenere.

Che è poi la principale accusa che arriva dal centrosinistra. Ma la parola accusa è forte. Bisogna tenere conto che da destra, da Fratelli d’Italia, è arrivata la richiesta di dimissioni per la ministra: nostalgia canaglia di un uomo forte, a difesa delle forze dell’ordine sempre e a prescindere (ma rigorosamente non contro i No-vax). E che dalla Lega, orfana di Matteo Salvini al Viminale – voleva tornarci, lo ha chiesto a Mario Draghi – è arrivato l’attacco per lo stile troppo poco muscolare con «i professionisti degli scontri», e soprattutto con gli immigrati, che qui non c’entrano niente ma per la Lega c’entrano sempre.

Non solo manganelli

Lamorgese ha un altro stile rispetto al predecessore. In aula non ha ripetuto l’ambigua formula del «cortocircuito» che sarebbe successo in queste piazze, che di fatto ammette che qualcosa è sfuggito dal lato forze dell’ordine. Non ha detto apertamente che qualcosa è andato troppo storto contro «i nostri ragazzi» (copy M5s). Se ha un dubbio che qualcuno in piazza abbia calcato la mano, cioè il manganello, si affida alla giustizia come alla provvidenza: «L’intera documentazione visiva, sia quella ripresa dalla Polizia scientifica, sia quella acquisibile da fonti aperte», dice, è a disposizione della magistratura che «è nelle piene condizioni di accertare la dinamica dei fatti e le responsabilità, comprese quelle eventualmente riconducibili alla condotta degli operatori di Polizia».

Presto in piazza dalla parte delle forze dell’ordine ci saranno «telecamere» e bodycam, dice, ma non i numeri identificativi degli agenti, come chiede Loredana De Petris (Leu). Alla Camera la ministra insiste più sulla necessità della «flessibilità ed equilibrio» di come si amministra l’ordine pubblico, «sono certa che le forze dell’ordine ne sapranno fare uso»: ad ascoltarla bene sembra un messaggio ai suoi sottoposti.

Quanto alle botte, la ministra sa che le manifestazioni nascono per una «morte in fabbrica», così la definisce, dello studente Lorenzo Parrelli, il giovane udinese ucciso sul colpo da una trave d’acciaio a forma di T del peso di 150 chili precipitata su di lui dall’alto, alla Burimec di Lauzacco (Udine). Che però non è una «morte in fabbrica» – alla Camera opportunamente dirà «in una fabbrica» – perché se la morte sul lavoro è «inaccettabile» comunque, in questo caso Lorenzo era in pieno orario scolastico, in una alternanza scuola-lavoro.

I ragazzi hanno protestato («una carezza» ha definito queste manifestazioni la mamma di Lorenzo) anche e soprattutto per questo. Nei cortei si grida anche il no al ripristino dell’esame di maturità con le prove scritte, ma è chiaro che non è questo che infiamma gli animi in piazza.

La ministra rivendica che le forze dell’ordine non hanno usato solo i manganelli, «delle 5.000 manifestazioni svoltesi l’anno scorso contro il green pass e le misure restrittive anti Covid» solo 115 «hanno registrato turbative», dice. Anche il 28 gennaio del resto gli studenti sono scesi in piazza in 35 città. E poi anche il 4 febbraio. E allora cos’è successo a Milano, Torino, Roma e Napoli il 28 gennaio? Lamorgese distingue: a Milano dal corteo «è partito il lancio di uova contenenti vernice rossa» quindi dalla polizia sono partite «due brevi azioni di alleggerimento»; a Torino «un consistente gruppo di partecipanti muoveva in corteo contro lo schieramento delle Forze dell’ordine, cercando più volte di rompere lo sbarramento». A Roma sarebbe successo come a Milano, «un fitto lancio di pietre e bottiglie fumogeni e altri oggetti contundenti contro le Forze di polizia» ma stavolta le cariche non arrivano, essendo «mancato ogni contatto fisico tra le forze dell’ordine e i facinorosi». Infine Napoli: a fumogeni e «palloncini di vernice colorata» si è risposto con «un’azione di alleggerimento», una carica insomma.

In bilico

La gestione della piazza «è la cartina di tornasole della qualità della democrazia», dice Enrico Borghi, deputato del Pd. «Gli infiltrati si cacciano», non si può rischiare «il derby poliziotti-studenti, l’immagine dell’Italia non può essere l’impunità per chi assale la Cgil e le manganellate per chi manifesta in piazza. Un’immagine che noi non possiamo permetterci, incontri gli studenti», le chiede Federico Fornaro (Leu). La ministra resta in bilico fra le critiche del centrosinistra e gli attacchi della destra, anche della Lega. La somma è praticamente zero: dalle informative non si capisce fino in fondo, neanche si può indovinare, cosa concretamente la ministra farà perché effettivamente i fatti di cui ha riferito non risuccedano.

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