Davvero incomprensibile aver sfiorato una crisi di governo sulla questione del catasto. L’oggetto del contendere è l’intenzione enunciata nella delega per la riforma tributaria di procedere a una indagine conoscitiva: elaborare, entro il 2026, una fotografia aggiornata degli immobili associando alla rendita catastale il valore patrimoniale a prezzi di mercato. Senza alcun effetto sulle imposte da pagare. Insomma, come affidare un messaggio a una bottiglia sperando che qualcuno la raccolga tra quattro anni.

L’attuale catasto, l’ultima revisione risale al 1990, dà un’immagine distorta del valore del patrimonio immobiliare non solo in termini assoluti (le rendite catastali sono molto inferiori ai valori di mercato: l’Agenzia delle entrate stima un valore di mercato medio di 190.000 euro contro un valore imponibile di 101.000 euro) ma, ciò che è più rilevante, anche in termini relativi.

Chi troppo, chi troppo poco

La distanza delle rendite catastali dal valore di mercato è molto disomogenea: per un quarto degli immobili (i più fortunati) è superiore del 30 per cento alla media mentre per un altro quarto (i più svantaggiati) è inferiore del 45 per cento. Come riportato dall’Ufficio parlamentare di bilancio, si valuta che la sperequazione tenda a favorire i segmenti della popolazione con maggiore ricchezza abitativa. 

Dovrebbe essere naturale, per tutte le forze politiche, promuovere una revisione che corregga la disparità tra i contribuenti, lasciando invariato il gettito totale. Eppure i diversi tentativi degli ultimi dieci anni si sono scontrati con l’opposizione di principio dei partiti di centro-destra (ma non solo) e delle lobby edilizie (proprietari e costruttori).

Anche la disposizione contenuta nel disegno di legge delega, sebbene approvata da tutto il Consiglio dei ministri, ha subito lo stesso fuoco di sbarramento come si può vedere anche dalle analisi proposte da quotidiani nazionali che annunciano «a Milano aumenti del 174 per cento», mettendo tra parentesi che un’eventuale riforma, essendo a parità di gettito, prevederebbe aliquote molto più basse delle attuali.

Del resto, la capacità di interdizione della rendita immobiliare è una tradizione italiana: per non andare ancora più indietro nel tempo risale almeno alla vicenda (di portata ben superiore a quella attuale) della riforma urbanistica del ministro dei lavori pubblici Fiorentino Sullo del 1963 che se fosse stata approvata avrebbe davvero reso migliori le città nelle quali oggi viviamo.

Nel nostro caso, l’episodio dell’altro giorno, più modestamente, fa pensare che la riforma del sistema tributario difficilmente vedrà la luce nello scorcio finale di questa legislatura.

L’unica strada percorribile sarebbe, infatti, la ricomposizione del prelievo tributario, spostando l’onere dai fattori produttivi verso consumi e rendite, mentre non è aritmeticamente possibile una riduzione generalizzata del prelievo.

Chi paga cosa

In questo quadro un riordino della tassazione immobiliare sarebbe un ingrediente essenziale. E si tratta di un settore ampiamente agevolato se non sussidiato, al di là della questione degli estimi catastali. L’elenco è lungo.

Il reddito da locazione è tassato con la cedolare secca, con un’aliquota proporzionale del 21 o del 10 per cento (per le aree ad alta intensità abitativa): una misura introdotta nel 2011 per favorire l’emersione dal nero, che effettivamente c’è stata ma non in misura sufficiente a compensare la perdita di gettito su chi già pagava (dopo dieci anni si potrebbe almeno introdurre qualche elemento di progressività nel prelievo ma chi ha il coraggio di proporlo?).

L’esclusione indiscriminata della prima casa dall’Imu che produce il bizzarro risultato per cui i servizi dei comuni sono finanziati solo dai proprietari di seconde case (spesso non residenti, a proposito di federalismo).

La diffusione crescente nell’ultimo quarto di secolo di bonus per ristrutturazioni e simili fino alla follia di quelli al 90 e al 100 per cento, il cui costo annuale è superiore al gettito totale dell’Imu (vale in aggregato, per chi accede ai bonus più generosi il sussidio, a spanne, equivale a 10-15 anni di Imu). Bonus che rappresentano un sussidio permanente al settore delle costruzioni che come tutte le droghe fa male.

Restiamo sintonizzati sulla discussione degli altri articoli della delega, i propositi delle stesse forze politiche a favore di non rivedere agevolazioni e semmai estenderle (vedi flat tax per gli autonomi) non lasciano tranquilli.

   

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