Il ritorno del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro sul salario minimo chiude l’era della furia anti casta. Meloni guida il processo di restaurazione per spazzare via le leggi approvate per contenere i costi della politica. Fra discussioni sui vitalizi e giudizi severi sul taglio degli eletti, l’epoca dell’esibizione pauperista è finita
Il passato che non passa o, meglio, che ritorna in grande stile con enti o istituti, per anni simboli della casta, che riprendono fiato. E scrutano all’orizzonte una nuova e inaspettata vita. Dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), organo di rilievo costituzionale, fino alla riabilitazione delle Province, in cantiere al Senato, passando per la deroga ai tetti degli stipendi dei dirigenti pubblici, è tutto un fiorire di tutela vecchi organismi e ripristino di qualche antico privilegi. Nell’era della destra al potere vengono pensionate le battaglie anti-casta con un chiaro segnale che arriva da Palazzo Chigi: nell’eventuale riforma della Costituzione, annunciata più volte dalla premier Giorgia Meloni, saranno salvati alcuni totem istituzionali, che pure erano invisi ai cittadini.
Tanto per capire l’aria che tira, sono stati parzialmente riesumati pure i vitalizi per gli ex parlamentari, un arnese della prima Repubblica che sembrava ormai dimenticato. Negli anni è diventato il bersaglio prediletto delle più furiose battaglie contro gli sprechi di risorse pubbliche. Il privilegio dei privilegi è stato in parte restaurato a Palazzo Madama. Un clima che ha dato vigore a chi alla Camera o al Senato non è più soddisfatto dell’indennità da parlamentare, manifestando la propria idea con sprezzo del pericolo per le reazioni. Insomma, passo dopo passo, vengono smantellate le piccole e grandi riforme varate con l’intenzione di limitare i costi della politica. O almeno hanno provato a farlo.
Highlander Cnel
L’ultima resurrezione è quella del Cnel, organo di rilievo costituzionale, ma che è anche uno degli organismi meno rilevanti nella vita della Repubblica italiana. Nei decenni si è guadagnato, suo malgrado, l’etichetta poco nobile di carrozzone pubblico. Poco male. Il famigerato Cnel ha scansato ogni tentativo di abolizione, previsto prima di tutto dal referendum costituzionale del 2016. A parole tutti i partiti erano d’accordo su questo punto. Addirittura l’attuale presidente, Renato Brunetta, sosteneva su Twitter che «Cnel è un etichetta sotto cui non c’è nulla di importante». Il suo predecessore, Tiziano Treu, era altrettanto favorevole alla cancellazione del Consiglio, dichiarandosi favorevole al referendum, salvo assumerne il comando qualche anno dopo. Non sorprende che, dopo la bocciatura della consultazione referendaria, tutte le forze politiche lo abbiano ancora etichettato come «superfluo», annunciando disposizioni ad hoc per eliminarlo dalla Costituzione. Alla nascita del primo governo Conte, quello gialloverde, il ministro delle Riforme, Riccardo Fraccaro, garantiva che avrebbe soppresso il Cnel. Missione fallita.
E ancora pochi giorni fa il leader e senatore di Italia viva, Matteo Renzi, ha definito l’organo «inutile», rilanciando un concetto messo nero su bianco nel suo disegno di legge al Senato, presentato a maggio, in cui chiede l’eliminazione dell’organismo di rilievo costituzionale. L’iniziativa dell’ex presidente del Consiglio ha fatto il paio con la proposta depositata alla Camera dal deputato del gruppo Misto, Manfred Schullian. Un’operazione che avrebbe raccolto consensi, almeno nelle dichiarazioni, fino a pochi mesi fa. Invece ora è destinata a naufragare: la maggioranza in parlamento ha in testa tutt’altro. Il Cnel, dalla prestigiosa sede di villa Lubin, avrà un nuovo lustro per la gioia dell’ex ministro della Pa Brunetta, che proprio non ci teneva a svernare come capitato ad alcuni suoi predecessori. Il Consiglio deve vedersela nelle prossime settimane con il delicatissimo dossier del salario minimo, affidato da Giorgia Meloni in persona. Difficile che possa sbrogliare una matassa del genere. Ma comunque vada, per il Cnel è già un successo.
Ritorno in Provincia
Di pari passo alla riabilitazione del Consiglio guidato da Brunetta, c’è il ritorno in grande stile delle Province. Qualche giorno fa il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini ha garantito massimo impegno su questo punto: «Sono straconvinto che le Province servono per scuole e strada, è una battaglia che come Lega spero di portare al successo». Meloni è intenzionata a concedere lo strapuntino, ritenendolo un fatto secondario, nonostante una proposta di Fratelli d’Italia puntasse alla loro abolizione. In fondo sono pur sempre delle poltrone da garantire ai dirigenti locali in caso di vittoria. Al Senato è partito il confronto per ripristinare il voto diretto già dal prossimo anno: l’obiettivo è l’election day con le Europee di giugno 2024. Tra tanti ddl a Palazzo Madama è stato uno dei primi a essere tirato fuori per avviare l’esame in commissione affari costituzionali.
Il cammino sta procedendo un po’ a rilento, perché le opposizioni chiedono un lavoro rigoroso e approfondito senza fughe in avanti. Ma l’impegno di Salvini è un impulso ad accelerare sulla riforma, che a conti fatti diventa solo un modo per portare indietro le lancette della politica. Dal 2014, infatti, questi enti sono stati ridimensionati dalla legge Delrio, togliendo il voto dei consigli provinciali. Un’iniziativa che voleva fungere da apripista al più ampio ridisegno costituzionale immaginato da Renzi. Un sentimento diffuso e i partiti hanno avallato questa visione. Il Movimento 5 stelle, agli esordi, aveva già reso di non che non avrebbe mai presentato le liste alle elezioni provinciali, non riconoscendo l’utilità di questa istituzione. Quindi da un decennio le Province sono invisibili agli occhi dei cittadini. Le elezioni sono di secondo livello e si svolgono al chiuso di accordi tra amministratori locali, rendendole ancora più indigeste e lontane dai cittadini. Ora il vento sta cambiando e invece di definire il perimetro dell’addio definitivo si sta apparecchiando la tavola per riabilitarle.
Addio ai vaffa
Nell’estate del revival, si materializza pure uno degli istituti più odiati dagli italiani, potente motore dell’ira verso la casta: i vitalizi, l’assegno mensile che veniva elargito agli ex parlamentari, usciti dalle Istituzioni. Per anni inchieste giornalistiche, libri e iniziative politiche, in primis del M5s, hanno denunciato questa stortura. Il risultato è stato ottenuto: dal 2012 è entrata in vigore una riforma che ha spazzato via il privilegio per chi è entrato in carica dopo quell’anno. Gli ex deputati e senatori percepiscono ora solo un’indennità, da mille euro circa, dopo i 60 anni e dopo i 65 anni chi è stato parlamentare per un solo mandato. Nella scorsa legislatura era stata poi disposta una riduzione degli assegni per chi invece ne aveva ancora diritto, essendo stato parlamentare prima del 2012). Ecco che a Palazzo Madama, a inizio dello scorso luglio, sono stati cancellati i tagli previsti.
Certo, non è stato un ripristino tout court del privilegio, ma fatto sta che la parola vitalizio ha fatto sobbalzare milioni di italiani: non è stata certo una mossa a elevato tasso di popolarità. Il leader dei 5 stelle, Giuseppe Conte, ha fatto sentire la propria voce, ripescando il lessico del primo grillismo: «Ecco cosa c’è sotto la maschera dei patrioti: nulla per cittadini, solo favori agli amici di Palazzo», ha messo nero su bianco. La polemica è durata il tempo di un post sui social, niente mobilitazione, niente attacchi a testa bassa.
L’epoca del populismo strong, quello di Beppe Grillo pronto a urlare i suoi “vaffa” in piazza, è tramontata quasi definitivamente. La valutazione è tutta politica: l’assalto alla casta non ha spostato nemmeno un voto. La riduzione del numero dei parlamentari, vessillo del M5s nella scorsa legislatura, è finita nel dimenticatoio almeno per l’opinione pubblica. Non ha spostato un solo voto a favore così come il ritocco al ribasso dei vitalizi. Insomma, tanta fatica per nulla, allora meglio lasciar perdere. Una presa d’atto della crescente disillusione degli italiani di fronte alla politica che prende la forma della rassegnazione. E si sta traducendo in un’inarrestabile astensione.
Tetto sfondato
E visto che l’indignazione non va più di moda, la restaurazione degli ultimi mesi, sotto l’egida meloniana, ha sfidato il totem del tetto dei 240mila all’anno ai manager pubblici. La norma è stata introdotta nel 2011, durante la crisi economica, con il decreto Salva-Italia fortemente voluto dall’allora premier Mario Monti. La riforma creò qualche malumore negli alti papaveri dello Stato, che di tanto in tanto hanno cercato qualche sponda politica per un ritocco. Il governo Meloni ha aperto una breccia, introducendo una norma ad hoc per il ponte sullo Stretto. La disposizione, approvata nel decreto Omnibus di agosto, consentirà uno strappo alla regola, seppure per un perimetro ridotto di profili e competenze e solo per quell’opera. Così per alcune figure sarà possibile un compenso oltre la fatidica soglia dei 240mila euro.
A dare una fiammata al sentimento anti-casta ci ha pensato il deputato del Pd, Piero Fassino, realizzando il più clamoroso degli autogol di comunicazione. L’ex sindaco di Torino, dal suo scranno di Montecitorio, ha rimesso al centro un altro tema tabù: le indennità dei parlamentari. Un tempo era tutta una rincorsa a prevedere un taglio, a proporre la diminuzione della remunerazione di deputati e senatori per dare un segnale. Fassino ha avuto l’ardire di capovolgere il concetto: «Non è uno stipendio d’oro», riferendosi a quello percepito da lui e dai suoi colleghi. Contro la sua posizione si sono scatenati gli anatemi di tutti i partiti, compreso il suo Pd. Insomma, va bene che si vivono anni di ritorno al passato, ma a tutto c’è un limite. Specie se si vive in tempi di crisi economica e di rincari che divorano il potere d’acquisto dei lavoratori.
Ma che lo spirito del tempo sia mutato è un fatto acclarato. E non riguarda solo la destra. Cambia addirittura l’orientamento di chi ha condotto le battaglie contro i costi della politica: il M5s. Il capogruppo al Senato, Stefano Patuanelli, ha rotto gli indugi proponendo la «reintroduzione del finanziamento pubblico ai partiti», una tesi che fino a qualche anno fa avrebbe provocato fulmini e saette - forse l’espulsione - nel suo stesso Movimento. Nel caso specifico i vertici 5s si sono limitati a dire che l'ex ministro aveva espresso una posizione personale. Ma che, come su altri capitoli, ha trovato un varco: il problema delle risorse alle forze politiche viene percepito, eccome.
Sul punto, in parlamento, ci sono tre proposte di legge: due del Pd, una di Andrea Giorgis e l’altro di Stefano Vaccari, e una terza del deputato di FdI, Andrea De Priamo, che punta ad assegnare la delega al governo sull’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione sulla disciplina dei partiti. In modo tale da prevedere la regolamentazione delle forme di contribuzione. Attualmente l’unico sostentamento pubblico è il 2 per mille, introdotto dal governo Letta, che arriva attraverso l’indicazione di un codice da parte dei contribuenti nella dichiarazione dei redditi.
L’unico cambiamento intoccabile resta quindi la riduzione del numero dei parlamentari, la grande novità della legislatura iniziata lo scorso ottobre. Ora è complicato, se non impossibile, rimettere mano al numero degli eletti per non incorrere nella furia popolare. Anche se nei corridoi del Transatlantico praticamente tutti sostengono, a microfoni spenti che, per usare l’espressione più gentile, sia stata «una grossa sciocchezza».
Renzi l’anti-casta
È, insomma, sempre più lontana l’era della politica attenta a contenere i costi, a ostentare il pauperismo.
La foto entrata nell’immaginario collettivo resta quella di Roberto Fico, appena eletto presidente della Camera, che prende un bus di linea al posto della sua autoblu, altro archetipo del privilegio della politica. Ma oggi appassiona di meno anche l’impiego delle macchine di servizio.
In Italia se ne contano oltre 30mila, precisamente 30.665, con una media di 3,7 auto di servizio a disposizione di ogni amministrazione. Non un calo da anni e anzi persistono situazioni singolari come le 47 auto a disposizione del comune di Avezzano, 42mila abitanti in provincia dell’Aquila. Oppure le 60 in dotazione alla provincia di Reggio Calabria, che ha conservato il proprio parco vetture. Chissà, magari nell’attesa di un ritorno dei vecchi poteri.
Così resta l’ultimo paradosso: Matteo Renzi, che oggi veste i panni dell’alfiere contro qualsiasi forma di populismo, resta nei fatti l’ultimo baluardo delle leggi anti-casta. La pervicace ostilità al Cnel e la tiepidezza per il ripristino delle Province hanno un retrogusto di populismo, quello della prima ora duro e puro. E in fondo l’attuale leader di Italia viva, da presidente del Consiglio, si era strenuamente battuto - personalmente o per interposta persona (che fosse Boschi o Delrio) - per cancellare sia l’organo di rilievo costituzionale che l’ente territoriale, insieme all’abolizione del Senato. Anche se poi, in un cortocircuito tutto made in Italy, Renzi ha deciso di farsi eleggere a Palazzo Madama nelle ultime due legislature, una delle Camera che avrebbe di fatto abolito. Una resa al simbolo del passato che resiste e vince. Relegando all’angolo le pulsioni anti-casta.
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