A un anno di distanza, possiamo ammetterlo: Silvio Berlusconi rassicurava. Era il custode bonario e un po’ sguaiato di un’immagine della realtà che confortava persino i suoi più convinti detrattori. Questo compito ingrato, prima di lui, era stato assolto da figure luminose come Alberto Sordi e Paolo Villaggio, che univano in una diagnosi tragica del reale il linguaggio dell’arte e la comicità popolare.
Eppure, di Berlusconi, questo loro erede specchiato che rinunciava all’arte a tutto vantaggio della comicità popolare, non si è apprezzata a dovere la carica estetica, nel senso più vicino al significato originario di «effetto sulla percezione sensoriale». L’estetica berlusconiana ha saturato il nostro immaginario come sanno farlo solo i fenomeni di massa: infiltrano ogni grado dell’esperienza, non importa che li si ami o li si osteggi.
L’uomo-schwa
«I crimini che io gli imputo mi riguardano di persona. Sono crimini morali, o, se si vuole, è un unico, solo, gigantesco crimine morale», scriveva Franco Cordelli. E proseguiva dicendo che di lui disturbava «la sua ostinazione a non gettare la maschera, che pure gli assomiglia, molto gli assomiglia, la maschera di ciò che è».
Questo perché il crimine morale di Berlusconi fu di essere sé stesso e al contempo pretendere di rappresentare indistintamente tuttə: davvero egli fu la prima e più autentica incarnazione dello schwa, la desinenza onninclusiva che tutto accomuna perché tutto rende indifferente e dunque omologo. Aveva quindi ragione Walter Siti quando lo incoronava «maestro del surrealismo di massa», perché egli fu sommo nella tecnica artistica detta “assemblage”, quella che, quando mette tutto assieme, non pretende di imporre alcun principio di ordine né all’opera né al mondo.
Meglio persino di Kurt Schwitters, nella sua opera più che trentennale Berlusconi seppe unire materiali eterogenei tra loro incompatibili, eppure capaci di coesistere senza disagio né pudore: liberismo da Chicago boy e protezionismo nazionalista, vento del nord e revanchismo sudista, sessualità libertina e richiami alle radici cristiane, culto della famiglia naturale e difesa dei diritti gay.
Ritardare il male
Berlusconi ha saputo essere tutto – e proprio per questa sua capacità di assorbire e trattenere, tipica solo della fibra di viscosa, offriva a ciascuno la possibilità di rispecchiarsi in un frammento, e quindi di ritrovarsi almeno in parte in lui. Ma c’è di più. Come si rammenta in un recente affresco agiografico, la serie tv Il giovane Berlusconi, come nessuno era capace di garantire a tutti una rinfrancante ancorché breve esperienza di riconoscimento: a dispetto della sua effimera istantaneità, malgrado un’evidente velatura di artificio, il suo sorriso cerimonioso esercitava sull’interlocutore lo stesso effetto di un’assunzione antemorte in paradiso.
Sarà per questo che, mentre in Italia e in Europa si va rafforzando una destra che torna ideologica e abbandona il “post”, viene come naturale accostare a Berlusconi la nozione di katéchon. Si tratta di una forza che arresta e detiene, e quindi un poco ingrigisce il mondo, ma così facendo ne rimanda la fine incombente e impedisce per quanto può l’irrompere dell’Apocalisse.
Il katéchon non appartiene per sua natura alla schiatta del bene, ma in qualche modo con esso collude per ritardare un male maggiore. Berlusconi, per quanto ha potuto, seppe contenere la spinta sovversiva delle pulsioni conservatrici e controrivoluzionarie, che oggi senza di lui possono ridestarsi in tutta la loro franca aggressività morale e politica, senza neanche le immusonite cravatte di Marinella.
Eppure, si è trattato di un inganno. Come ogni katéchon, e come i personaggi di Sordi e Villaggio, Berlusconi è stata figura mezzana, anfibia, allusiva. Mentre frenava il male, gli spianava la strada. Ha messo in burla il fascismo, e così ne ha permesso un mutamento di pelle che l’ha fatto sopravvivere. Ha rotto la sintassi del linguaggio politico lasciandolo infiltrare da codici sempre più informali e scanzonati, così da privarlo della sua capacità di formare, o quantomeno di arginare. Ci ha fatto introiettare la convinzione – in psicanalisi si direbbe “acefala”, cioè senza limite, quindi senza autentica soddisfazione – che tutto sia compossibile.
E se oggi la pulsione di fascismo, sebbene meno irreggimentata che un secolo fa, pensa di potersi conciliare con il rispetto delle libertà, ecco questa è un’illusione collettiva che deve molto al berlusconismo. Per evitare che si collabori in questa opera di incaprettamento collettivo, si raccomanda mandare a memoria quanto segue: rivalutare oggi Berlusconi sarebbe un esercizio di smisurata auto-indulgenza.
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