- Conclusasi la Conferenza Nazionale sulle Droghe di Genova non resta che aspettare una risposta politica. A considerare il momento, le possibilità che possa arrivare, anche in tempi brevi, è pressoché nulla.
- Dalla conferenza si esce più punti positivi che negativi, merito di un mondo, quello che gira intorno alle droghe e alle dipendenze, aggiornato rispetto a una politica passiva e sorda.
- Infine il discorso sulla cannabis terapeutica, il momento più sentito, per l’arrivo di Walter De Benedetto, che ha descritto bene le difficoltà di un malato a potersi curare. «Il mio diritto alla cura, stabilito dalla Costituzione, è calpestato».
Conclusasi la Conferenza nazionale sulle droghe di Genova non resta che aspettare una risposta politica. A considerare il momento, le possibilità che possa arrivare, anche in tempi brevi, è pressoché nulla. Va dato il merito alla ministra per le Politiche giovanili, Fabiana Dadone, di aver convocato il tavolo dopo 12 anni di silenzio, di aver riportato nel discorso pubblico questi temi e costretto tutti a fare il punto.
D’altronde la ministra 5 stelle non ha mai nascosto il suo pensiero su queste tematiche, si definisce antiproibizionista e spinge per la liberalizzazione, e ne ha dato prova, seppur con un profilo contenuto, anche con il suo discorso di apertura.
Il suo è certo un tentativo di rinnovare un ambito, almeno in Italia, bloccato a trent’anni fa. Alla Jervolino-Vassalli, legge attualmente in vigore, e al Testo unico sulle droghe redatto nel 1990: «Abbiamo parlato di persone senza stigmi e pregiudizi. Le conclusioni mettono tutti, a cominciare dal legislatore, di fronte alle proprie responsabilità», afferma nei saluti finali.
Un’agenzia per la Cannabis
Dalla conferenza si esce con più punti positivi che negativi. Il merito è di un mondo, quello che gira intorno alle droghe e alle dipendenze, che più aggiornato rispetto a una politica passiva e sorda, persino di fronte alle 620mila firme raccolte per il referendum sulla cannabis. Argomento rimasto fuori dai tavoli, ma che ritorna mascherato nelle conclusioni, dato che nei documenti finali si parla di depenalizzazione.
«È fondamentale che il governo Draghi non difenda il Dpr 309/90 (il Testo unico sulle droghe, ndr) in Corte costituzionale per l’ammissibilità del quesito. È una legge che non funziona», dice Marco Perduca, presidente del comitato promotore Referendum Cannabis Legale. Durante i lavori ha spinto, trovando sostegno, per la creazione di un’Agenzia nazionale sulla Cannabis.
Politica distante
L’abisso tra politica e servizi è lampante sin dalle prime ore di conferenza. Complice anche il fatto che si sia deciso di chiamare l’incontro “Conferenza nazionale sulle dipendenze”, e non “sulle droghe”, come avvenuto in passato. Una scelta che ha, di fatto, indirizzato gli interventi istituzionali.
Ad aprire la giornata di sabato si susseguono i messaggi, in presenza e in remoto, di ben dieci ministri dell’attuale governo (ma è assente il ministro della Salute, Roberto Speranza, noto per le posizioni proibizioniste).
Ma i discorsi usano termini stantii: si parla delle persone che fanno uso di droghe come da salvare, ritenute nell’unità di milioni (così è, ma non per quelli definiti “problematici”) e non manca una buona dose di paternalismo sui “nostri ragazzi”, quando a fare uso di sostanze, sono per la maggioranza adulti.
Se non fosse per il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che invita a riflettere sulla decisione della Germania di legalizzare la cannabis, ci sarebbe poco da salvare.
Il punto più basso sono gli interventi della ministra per gli affari regionali e le autonomie, Mariastella Gelmini, che si dice «convinta che non esista una libertà di drogarsi», quando per legge, quella libertà in effetti esiste, e quello del leghista Massimiliano Fedriga, presidente della Conferenza delle regioni, che accusa i media di sponsorizzare personaggi che si drogano. Dalla sala arrivano applausi, sono quelli delle prime file, riservate alle autorità politiche. Operatori e associazioni occupano quelle in fondo, in silenzio.
Recuperabili
Basta poco però a spazzare via tutto questo, perché arriva don Luigi Ciotti che apre il primo tavolo, quello sulla realtà penitenziaria, assente in un primo momento e chiesto a gran forza dalle associazioni.
«Chiediamo un cambiamento radicale, revisione della 309, decriminalizzazione del consumo e depenalizzazione dei reati più lievi», urla con il suo solito pathos, il fondatore del Gruppo Abele, seguono applausi. Arrivano dalla seconda parte della sala questa volta.
Il suo e quello di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, sono gli interventi più politici della due giorni, insieme a quello del presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, Mauro Palma che, oltre a condannare la “robustezza legislativa”, suggerisce di cambiare anche il lessico, «non pensare che ci siano persone non più recuperabili».
Attenzione ai diritti
«Non possiamo dire che Stefano Cucchi era un drogato e lavarci le mani», esordisce Gonnella, critico nei confronti di una legge che riempie al 30 per cento le carceri di persone con dipendenza e continua. «La vita del tossico chiuso in cella è doppiamente sofferente: spero che con il referendum si possa aprire un dialogo nella società. Attenzione ai delitti che non hanno una vittima, l’attuale legge trova difficoltà ad avere un suo fondamento di tipo costituzionale». Cita anche la Fini-Giovanardi e la sua incostituzionalità, anche qui il tono è alto. E neppure Giovanardi e Gasparri, in sala stampa per le interviste di rito, possono non accorgersene.
Dal loro annuire sembrano d’accordo: togliere dalle carceri chi ha problemi di droga. Ma senza cambiare la 309 e l’articolo 73, sui i reati di produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti, è impossibile. Chiamati ad esprimersi proprio su questo, i tavoli concludono: sottrarre all’azione penale la coltivazione di cannabis domestica, depenalizzare la cessione di modeste quantità per uso di gruppo, escludere l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza, inserire i lavori di pubblica utilità, dove possibile, al posto della reclusione.
Un nuovo approccio
Durante la due giorni, pare che la politica sia rimasta fuori, alla porta, protagonista solo dell’apertura, con la passerella dei ministri. Seguono dati, interventi attenti e precisi, tabelle e grafici. Ma quello che ne è scaturito, in realtà, ha molto di politico.
Escono sette temi riassuntivi, il primo è il superamento dello stigma, si chiede attenzione alla persona oltre la sostanza, si chiede che i Pud, cioè le persone che fanno uso di droga, siano coinvolti nelle scelte che li riguardano, non solo attori esterni. Prova di questo è la partecipazione ai tavoli della ItanPUD, network italiano delle persone che usano droghe.
C’è poi la depenalizzazione, l’integrazione (strutturare reti regionali e locali e condividere gli obiettivi tra istituzioni e operatori: SerD, privato sociale e magistratura di sorveglianza), la formazione del personale e l’utilità di risorse dedicate e continue.
Molto di quanto chiesto non necessita di modifiche legislative, c’è bisogno del lavoro delle regioni, di investimenti su sanità e servizi, come ricorda Riccardo De Facci, che ha partecipato a uno dei tavoli preparatori, presidente del Cnca, Coordinamento nazionale comunità di accoglienza, la più grande rete di comunità terapeutiche nel settore dipendenze: «Chiediamo alla ministra Dadone l’avvio di un tavolo che coinvolga servizi pubblici e del terzo settore, regioni, rappresentanze dei consumatori per rendere operative le proposte messe a punto alla conferenza e riscrivere così un nuovo approccio».
Superare i dogmi
Si è parlato di drug-checking (il controllo della sostanza, al momento in mano ad alcune associazioni volenterose), di riduzione del danno e del rischio, questioni in partenza escluse persino dagli argomenti in agenda.
Sono politiche, molto diffuse all’estero e poco in Italia, che vanno in direzione opposta rispetto a un “no alla droga” fine a sé stesso o all’obbligo dell’astensione totale dalla sostanza, prima del reinserimento in società.
Lo ricorda bene Massimo Barra, fondatore di Villa Maraini, la prima che nel paese ha sperimentato la prossimità, con l’unità di strada di Tor Bella Monaca, la più grande piazza di eroina. Nonostante questo non si è riusciti in tutta Roma ad avere un punto aperto 24 ore su 24, anche a rotazione, denuncia.
«È un dogma vecchio pensare alla “guarigione” e poi al reinserimento. Ci sono milioni di persone che consumano droga, ma non tutti sono tossicomani. il tossicomane è quello che in una fase della sua vita non riesce a farne a meno», ha detto Barra aprendo poi alla questione lavorativa: «L’impianto punitivo incide negativamente nei processi di inclusione socio-lavorativa. Vogliamo un paradigma orientato all’empowerment, come si usa dire oggi, delle persone».
Ancora oggi infatti fare uso di sostanze può voler dire interdizione da certi tipi di lavoro o perdita della patente. Problema che peggiora se si pensa alle persone straniere che costituiscono il 34 per cento di tutti i detenuti. Su questo emerge una proposta condivisa, ma ritenuta difficilmente attuabile: un permesso di soggiorno in prova per i detenuti stranieri, come misura temporanea al termine della pena.
Diritto alla cura
Infine il discorso sulla cannabis terapeutica, il momento più sentito, per l’arrivo di Walter De Benedetto, che ha descritto bene le difficoltà di un malato a potersi curare. L’uomo affetto da artrite reumatoide, ha subìto un processo per aver coltivato cannabis per alleviare i dolori causati dalla sua condizione.
«Il mio diritto alla cura, stabilito dalla Costituzione, è calpestato», ha detto Walter dalla barella, spiegando come il sistema sanitario non fornisca la quantità di cannabis di cui ha bisogno. Lo stabilimento chimico farmaceutico di Firenze, l’unico autorizzato a produrre cannabis medica, riesce a coprire solo il 15 per cento del fabbisogno italiano, lasciando di fatto i pazienti senza una terapia adeguata, costretti ad arrangiarsi o rivolgersi al narcotraffico.
Un’eccezione a cui si può metter fine solo con un intervento della politica, importando maggiormente o aprendo ai bandi per la produzione privata, come previsto inizialmente dalla legge del 2015. L’impressione finale è comunque che l’incontro sia stato utile, come si legge sulle facce dei partecipanti. Che si salutano sperando di non dover aspettare altri 12 anni.
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