Il presidente del Movimento 5 stelle annuncia di voler puntare i piedi sul nuovo invio di armi a Kiev. Dovranno essere «difensive» per ricevere l’approvazione dei Cinque stelle, mentre per rimuovere Petrocelli il Movimento è disposto anche alle dimissioni in blocco dalla commissione Esteri
Il presidente del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte annuncia battaglia sull’invio di armi «non difensive» all’Ucraina. Per avere la certezza che il suo punto di vista sia condiviso anche dal resto della maggioranza e dal presidente del Consiglio Mario Draghi, l’ex premier ha annunciato aver chiesto all’inquilino di palazzo Chigi e al ministro della Difesa Lorenzo Guerini di riferire a proposito in parlamento «affinché ci sia condivisione di questo indirizzo politico e piena possibilità di conoscere gli interventi programmatici di governo».
Il presidente ha ribadito la linea pacifista del Movimento alla fine del Consiglio nazionale, in cui i dirigenti Cinque stelle hanno concordato anche di opporsi «all’invio di aiuti militari e a controffensive che esulino da quello che è il perimetro del legittimo esercizio del potere di difesa di cui all’articolo 51 della Carta dell’Onu».
L’articolo prevede che non sia pregiudicato il diritto naturale di autotutela nel caso di un attacco «fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». Un’eventualità difficile, considerato che il Consiglio decide all’unanimità e dell’organismo fa ancora parte la Russia.
L’impegno del Movimento
In una nota diramata al termine del Consiglio nazionale, il M5s annuncia di volersi impegnare «nelle varie sedi istituzionali, attraverso i suoi rappresentanti, affinché tutte le iniziative e gli atti che verranno posti in essere dal nostro paese siano costantemente orientati a sostenere l’Ucraina in linea con i principi della Carta delle Nazioni unite».
Non è ancora chiaro in che misure possano precipitare queste intenzioni, considerato che la decisione del governo di inviare ulteriori armi agli ucraini non dovrà essere convalidata dal parlamento, a differenza del primo.
Sul decreto che autorizzava la prima spedizione di armi, Camera e Senato si erano espressi assegnando al governo il mandato di sostenere Kiev e di aumentare la spesa militare italiana per raggiungere il traguardo del 2 per cento del Pil indicata dagli obiettivi Nato. L’ordine del giorno che conteneva questa indicazione era diventato un caso al Senato, dove il M5s l’aveva criticato pesantemente fino a non votarlo in commissione Difesa. Ora, la linea pacifista torna di nuovo in cima alla lista delle priorità Cinque stelle.
La presa di posizione di Conte non è nuova. Soltanto due giorni fa, il presidente del Movimento aveva toccato gli stessi tasti da ospite del congresso di Articolo 1, quando aveva spiegato che in questo momento «la proposta non può essere togliere il reddito di cittadinanza per investire sulle armi».
La dichiarazione aveva raccolto larghi consensi dal pubblico, che raccoglieva anche una parte della sinistra che nelle ultime settimane ha raccolto il dissenso nei confronti di quella che è considerata una svolta militarista del governo.
Il dossier Petrocelli
Nella nota diramata dal M5s alla fine del Consiglio nazionale si legge anche della «piena e risoluta condanna dell’aggressione militare condotta dalla Russia contro l’Ucraina, perché contraria ai più elementari principi di diritto internazionale, non provocata e non giustificata».
Un passaggio che pone fine alla controversa linea sulla Russia del Movimento, collocando il M5s nel fronte atlantista: non stupisce dunque la presa di posizione definitiva di Conte nei confronti del presidente della commissione Esteri del Senato, sulla via dell’espulsione dal M5s per un tweet controverso in cui evocava la Z diventata simbolo dei sostenitori dell’invasione russa.
Ormai a un passo dall’espulsione da Movimento e gruppo parlamentare, Petrocelli non ha però intenzione di lasciare la sua poltrona di presidente: per rimuoverlo però ormai anche il suo ex partito è pronto al passo più estremo: «Siamo disponibili a tutte le misure atte a garantire che lui non resti più a presiedere quella commissione e per garantire la funzionalità» dell’ente, anche attraverso le dimissioni in blocco dei membri.
Il passo indietro di tutti i senatori che appartengono all’organismo sembra ad oggi l’unica strada possibile per rimuovere il senatore, che secondo il regolamento del Senato è inamovibile, a meno che non si dimetta di sua sponte. L’unico precedente è quello del presidente della commissione di Vigilanza Rai che nel 2008 venne allontanato dall’incarico dopo che i membri l’avevano sfiduciato ritirandosi.
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