Il ritiro del buon oculista Domenico Lacerenza in Basilicata, ha confermato tutte le difficoltà della coalizione alternativa al destra-centro. Una coalizione dove solo il partito più grande, il Pd di Elly Schlein, è mosso da una esigenza di unità, con un’opera di ricucitura paziente, in ogni direzione, anche a costo di pagare un prezzo
Se volete perdere, continuate così», è stato l’anatema scagliato bonariamente da Romano Prodi verso i partiti del cosiddetto campo largo, ma soprattutto verso l’interlocutore presente tre giorni fa in sala accanto a lui, il leader del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte.
L’hanno preso alla lettera. Il pasticciaccio brutto in Basilicata, con il ritiro del buon oculista Domenico Lacerenza, ha confermato tutte le difficoltà della coalizione alternativa al destra-centro.
Una coalizione dove solo il partito più grande, il Pd di Elly Schlein, è mosso da una esigenza di unità, con un’opera di ricucitura paziente, in ogni direzione, anche a costo di pagare un prezzo.
La Prima repubblica
Tutti gli altri esercitano quello che nella Prima repubblica i politologi chiamavano potere di coalizione, rendita di posizione, e oggi va meglio definito come spirito di ricatto, politicamente parlando.
Con la differenza che un tempo il Ghino di Tacco (copyright Eugenio Scalfari) era uno solo, il leader socialista Bettino Craxi. Come il signore della rocca di Radicofani citato da Dante che taglieggiava i pellegrini sulla via Cassia verso Roma, era Craxi a far pagare il pedaggio ai principali partiti, la Dc e il Pci, alleandosi con i primi nel governo nazionale e con i secondi nelle città, ma chiedendo per sé e per i suoi il posto di presidente del Consiglio o di sindaco.
Nell’opposizione attuale i signorotti si moltiplicano e i risultati si vedono. C’è il Conte di Tacco che si allea con il Pd solo se a decidere il nome del candidato è lui, altrimenti scatta il veto, come è successo con la candidatura di Angelo Chiorazzo in Basilicata. Lo stesso fanno, specularmente, Carlo Calenda e Matteo Renzi, ghini di tacco minori, pronti a voltarsi altrove.
Elettori in fuga
Un’altra differenza con il passato è che nessuno di loro controlla i propri elettori. In Abruzzo il M5s nel 2022 alle elezioni politiche ha raccolto il 18,4 per cento (115.336 voti), nel 2019 alle regionali il 19,7 (118.287 voti), domenica scorsa ha preso 40mila voti, gli altri (secondo i dati dell’Istituto Cattaneo) hanno in gran parte preferito astenersi.
Quelli dell’ex Terzo polo sono andati verso destra. Gli elettori M5s, in particolare, sono insensibili alle mobilitazioni dall’alto, una parte si sente a suo agio in una lista che si candida sola contro tutti, piuttosto che in un’alleanza ritenuta indigesta.
Più di dieci anni di educazione anti politica non si cancellano d’un tratto. E per un decennio il vero nemico del Movimento è stato il partito che più di tutti incarna la politica, con le sue incrostazioni di potere, cioè il Pd.
La classe dirigente del M5s, Giuseppe Conte in testa, dovrebbe impegnarsi per superare questa diffidenza. Invece riempie il cammino di ostacoli, segue gli umori degli intransigenti con la scomunica pronta, teme di lasciare spazio a tutto quanto si muove, per così dire, dalla lista di Michele Santoro ai movimenti meridionalisti ad Alessandro Di Battista.
Nel corto periodo appare una strada vantaggiosa, il Movimento non si è mai identificato con la coalizione di centrosinistra e non si mette in lutto se il campo appassisce. Ma anche il gioco del Ghino di Tacco ha il momento in cui arriva la fine, ed è quello in cui le rendite vengono meno. È questa la difficoltà ancora nascosta di Conte.
Se aspira davvero, un giorno, a tornare a palazzo Chigi, deve dimostrare uno spirito di unità che finora non si è visto. Se invece vuole continuare a ballare da solo, deve mettere nel conto che anche nell’attuale M5s prima o poi qualcuno gli presenterà il conto.
Per questo i suoi principali consiglieri gli suggeriscono di allearsi con Matteo Salvini e Antonio Tajani, e anche Renzi e Calenda, per spingere a tornare a una legge elettorale proporzionale, in cui ognuno va per sé, con le mani libere davanti agli elettori.
Nella Prima repubblica era il mantra di Craxi, ma i partiti erano organismi definiti, non affidavano i loro cambi di umore ai tweet di giornata. In questo sistema spappolato sarebbe invece il tripudio degli ghinini di tacco, indifferenti ai principi e ai contenuti, al contrario di quanto dicono.
Ma attenzione: anche il voto di lista in Abruzzo dimostra che quando il caos arriva al massimo livello, l’elettore normale, quello che non passa il tempo a seguire gli appassionanti duelli tra Renzi e Calenda e Conte, o resta a casa o si affida ai partiti più robusti e radicati, Fratelli d’Italia e il Pd.
Perfino il voto verso Forza Italia è una conferma di bipolarismo: viene premiato un partito centrista che però dice chiaramente da che parte sta. Un’indicazione che in vista delle elezioni europee dovrebbe arrivare come un vento gelido sulle attuali rocche di Radicofani, dove si progettano ogni giorno audaci colpi di scena e di mano, ma sono ben più basse e meno spaventose di quella che frequentava il Ghino di Tacco originale.
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