Alla fine ha vinto Giuseppe Conte. Nonostante il tifo, nemmeno troppo nascosto, a favore di Beppe Grillo anche da chi lo ha sbeffeggiato per anni, il M5s non ha quasi più nulla a che spartire con il movimento rabbioso del vaffa di quasi vent’anni fa. Era stato detto e ripetuto in questi anni che un partito che raggiunge quelle dimensioni – un terzo dei voti nel 2018 – e occupa palazzo Chigi per tre anni, non poteva che istituzionalizzarsi, e cioè abbandonare i suoi tratti rivoluzionari nei modi e nelle visioni, e addivenire a una vita politica quotidiana.

La discesa dalle utopie palingenetiche di Gianroberto Casaleggio e dalle ingenue virtù della democrazia della rete è avvenuta in rapida successione. L’ultimo miglio è stato compiuto nelle scorse settimane quando si è concluso il lungo iter con il quale il M5s ha ridisegnato le sue coordinate organizzative e definito alcune posizioni politiche.

In estrema sintesi: Grillo è stato accompagnato alla porta eliminando il suo ruolo apicale, di «elevato» come diceva lui stesso in uno degli ultimi, rari, sussulti di autoironia; del simbolo si occuperanno forse i tribunali; ci si potrà ricandidare più volte in vari ruoli; prederà forma una strutturazione territoriale con responsabili eletti dalla base; gli iscritti si sono definiti in maggioranza progressisti con o senza aggettivi.

Il processo decisionale

Merita però particolare attenzione il processo decisionale con il quale il M5s è arrivato a ridefinire il suo profilo. Contrariamente alla prassi dei congressi di partito che si svolgono per livelli territoriali, dal locale al nazionale, il M5s, non disponendo di una struttura ramificata territorialmente, ha investito direttamente iscritti e simpatizzanti in varie modi e in varie tappe.

La prima fase, definita un po’ ingenuamente «l’ascolto dei bisogni», chiedeva agli iscritti e ai simpatizzanti di fornire idee e proposte ad libitum. Ne sono arrivate più di 20.000. Per selezionarle è intervenuta una struttura esterna, una società specializzata nella gestione dei processi deliberativi, affiancata da docenti universitari con competenze specifiche in questo campo.

Un lavoro di scrematura complesso e politicamente delicato nel corso del quale, apparentemente, non c’era presenza dei dirigenti del partito. I «bisogni» sono stati ridotti a una ventina, poi ulteriormente ristretti a 12, e sono stati sottoposti al voto degli iscritti. A questo punto sono entrati in campo altri soggetti per rifinire l’agenda programmatica e organizzativa del partito.

Ancora un soggetto esterno, una società specializzata in consultazioni in rete, ha organizzato la selezione di 300 iscritti, estratti casualmente per quota di residenza, genere ed età – ma con una sovrarappresentazione di giovani, voluta espressamente dalla leadership – che si sono riuniti per discutere sulle 12 aree tematiche a gruppi di dieci nella modalità tipica dei focus group.

Alla fine di questa ulteriore riflessione è stato redatto, sempre con l’ausilio della società di consulenza ma anche con l’intervento di alcuni dirigenti di partito e di esperti (da Nino Cartabellotta a Giancarlo Caselli, da Michele Ainis a Tomaso Montanari) il documento conclusivo da sottoporre al voto finale degli iscritti. I risultati sono stati presentati nel corso del congresso-convention Nova, tenutosi a Roma.

Il tema dei migranti

Pur riassunto per sommi capi, questo iter rileva due aspetti salienti: una fitta interazione con la platea degli iscritti, e in certe fasi anche dei simpatizzanti, con diverse modalità di coinvolgimento e in diverse configurazioni; e la delega ad attori esterni della selezione delle indicazioni offerte dalla base. Tutto ciò disegna un processo decisionale innovativo. Ben più importante della scelta sul garante o sulle ricandidature.

A fianco dei temi organizzativi l’assemblea dei Cinque stelle ha fornito anche indicazioni politiche: l’adesione al campo progressista è nettamente maggioritaria – benché i termini destra e sinistra continuino a suscitare l’orticaria in quel mondo, tanto che il 26 per cento rifiuta ancora di collocarsi.

Sui diritti civili e sociali (tra l’altro alla redazione del documento finale hanno partecipato anche associazioni Lgbt) non ci sono divisioni con Pd e Avs. Con una eccezione: sull’immigrazione i pentastellati condividono posizioni di chiusura. È su questa linea che il M5s si è trovato in sintonia con quella sinistra sicuritaria e tendenzialmente xenofoba rappresentata dal partito di Sahra Wagenknecht.

Il radicalismo su welfare, occupazione, salari, libertà politiche e di genere si accompagna a una latente ostilità verso gli stranieri. Un’equazione dal tono rosso-bruno su cui potrebbe inciampare l’opposizione.

© Riproduzione riservata