- Non c’è pace fra i pacifisti italiani, ed evitare le battute facili non è semplice. La manifestazione di domani a Roma, quella nazionale indetta dalla Rete italiana pace e disarmo, partirà alle 13.30 da piazza della Repubblica e punterà a riempire la storica piazza San Giovanni.
- Una parte degli organizzatori, anzi per la precisione una parte dei sindacati, teme che se le piazze in tutto il mondo si mobilitano contro Putin, quella di Roma finisca di fatto contro Mario Draghi e contro la sinistra di governo.
- In serata la Cisl, fra le prime a lanciare la piazza, strappa. E accusa i compagni di marcia di non essere abbastanza anti Putin.
Non c’è pace fra i pacifisti italiani, ed evitare le battute facili non è semplice. La manifestazione di domani a Roma, quella nazionale indetta dalla Rete italiana pace e disarmo, partirà alle 13.30 da piazza della Repubblica e punterà a riempire la storica piazza San Giovanni.
Ha tutti i numeri per farcela: ad aderire è una valanga di associazioni e movimenti, dai sindacati al mondo cattolico.
Ma alla fine, dopo ore di trattative, fra i pacifisti la pace non arriva. Oggetto del contendere, all’apparenza, le parole d’ordine. Nel volantino della piazza si chiede la «condanna dell’aggressione russa», il «cessate il fuoco», gli «aiuti umanitari», l’«accoglienza ai profughi», il «negoziato sotto la guida dell’Onu» e «una politica di disarmo e di neutralità attiva».
Nella serata di mercoledì viene sbianchettato dagli slogan comuni il «no» all’invio delle armi italiani, decise dal decreto Ucraina 2, peraltro secondo la Rete in violazione del trattato ATT sul commercio delle armi che il parlamento italiano ha ratificato nel 2013 (e che vieta di esportare armi che rischino di essere usate «per commettere o facilitare gravi violazioni del diritto internazionale umanitario»).
È successo che una parte degli organizzatori, anzi per la precisione una parte dei sindacati, teme che se le piazze in tutto il mondo si mobilitano contro Putin, quella di Roma finisca di fatto contro Mario Draghi e contro la sinistra di governo.
Il Pd prova a cucire
Ma il Pd non vuole rompere con i pacifisti di ogni ordine e grado, tanto più in un momento del genere. Ieri Pier Luigi Bersani, dopo ave votato sì all’invio delle armi a Kiev ha detto di essere preoccupato «da una Ue solo con l’elmetto».
Ed Enrico Letta, il leader che più ha spinto sugli aiuti militari, prima di partire per Bruxelles e Parigi ha voluto incontrare l’Anpi, capofila del corteo di sabato. E da due giorni spinge la comunicazione dalle armi alla resistenza ucraina alla necessità di un negoziato e di sostegno ai civili. Stasera il sindaco di Roma Gualtieri ha organizzato a Roma una fiaccolata dei primi cittadini. Pd in prima fila. Anche perché ha adottato un modello di «mobilitazione diffusa» in tutte le iniziative per la pace, «segnale positivo ovunque si tengano», spiegano al Nazareno.
Più delicato però la questione del corteo di sabato. Nel quale il «no all’invio di armi» uscito dalla porta, è rientrato dalla finestra. Netto nel documento esteso di convocazione della manifestazione, dove si legge: «Dobbiamo prodigarci per una cessazione degli scontri con tutti i mezzi della diplomazia e della pressione internazionale, con principi di neutralità attiva ed evitando qualsiasi pensiero di avventure militari insensate e fermando le forniture di armamenti».
Un concetto ripetuto da quasi tutte le associazioni che aderiscono al corteo; niente di strano, del resto, trattandosi di pacifisti, spesso nonviolenti e disarmisti. Scrive l’Arci: «Dall’Italia, dall’Europa, dalla comunità internazionale devono arrivare soluzioni politiche, non aiuti militari».
Scrive la campagna Sbilanciamoci: «Bisogna disarmare e non riarmare, ridurre le spese militari e non investire nella guerra». L’associazione “Un Ponte per”: «L’Unione europea che per la prima volta rivendica l’acquisto di armamenti è quanto di più lontano avremmo voluto sentire da un’istituzione che è nata per promuovere la pace, la cooperazione e la prevenzione dei conflitti armati. La dichiarazione di un piano straordinario di riarmo di cento miliardi di euro annunciato dalla Germania e che rischia di contagiare anche l’Italia e gli altri paesi della Ue, è semplicemente irresponsabile».
I sindacati si dividono
Cgil, Cisl e Uil, anima organizzativa della piazza, prima fanno fronte comune, in nome dell’unità sindacale. Poi invece si dividono anche loro. E così Maurizio Landini, leader della Cgil, si schiera decisamente contro l’invio delle armi all’Ucraina.
Luigi Sbarra, segretario della Cisl, in serata manda una nota «a tutte le strutture» del suo sindacato: solidarietà massima al popolo ucraino ma «al punto in cui siamo la testimonianza da sola non può bastare. Tanto più se tale testimonianza rischia di essere inquinata da pesanti pregiudizi e derive ideologiche che sottintendono una sostanziale equidistanza tra le parti in guerra, che ci allontanano dallo spirito della manifestazione di sabato 5 marzo a Roma».
La decisione è grave: «Dopo un lungo confronto con tutte le associazioni partecipanti alla Rete della pace e disarmo e dopo innumerevoli tentativi di modificare una piattaforma irricevibile ci vediamo, nostro malgrado, costretti a non procedere con un’adesione formale della Cisl alla manifestazione. Non possiamo certo riconoscerci in parole d’ordine come “neutralità attiva”».
La Cisl, fra le prime a lanciare la piazza, strappa dunque. E accusa i compagni di marcia di non essere abbastanza anti Putin. Anche se concluderà la manifestazione non Landini e don Ciotti, come sembrava fino a ieri, ma Liliana Segre, considerata la personalità «unitaria» per eccellenza.
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