Quel 13 agosto 2019, Giuseppe Conte prese la macchina e andò a Foggia. A rileggere le cronache di quel giorno colpisce come nessuno si sia stupito della strana fuga. Nessuno tranne gli aruspici dei palazzi romani. Chi sono gli aruspici? Fanno parte della fauna di burocrati, boiardi, capi di gabinetto, tecnici, supertecnici e consulenti, quelli che contano e che sanno contare, esemplari di una specie che, modificando gli intrecci e le eliche di un dna irriproducibile in qualunque altra città del mondo, sono riusciti a tramandare di generazione in generazione l’arte di leggere il presente e il futuro in dettagli ad altri occhi insignificanti.

Loro, gli aruspici, si erano accorti eccome di quel viaggio. Avevano ben chiara quale fosse l’impellenza che aveva convinto il premier ad abbandonare la tolda di comando e imboccare l’autostrada verso la Puglia.

«Quel viaggio» ricorda oggi uno degli aruspici «era di fatto il primo atto di un nuovo soggetto politico: Giuseppe Conte non sarebbe stato più l’uomo indicato come figura di garanzia dalle parti contraenti di un contratto. Di lì in avanti, Conte avrebbe vissuto di vita propria.»

Essendo uomo intelligente, anche se più spesso le cronache usano il termine «scaltro», Conte aveva da tempo capito che non poteva continuare a dipendere dalle indicazioni di altri e che aveva bisogno di creare una base forte di consenso personale.

Non gli bastava, però, avere dei buoni numeri nei sondaggi settimanali dei giornali. Quelli sono troppo esposti ai venti dell’attualità, cambiano segno e direzione nel tempo in cui Salvini si beve un Mojito e servono a poco. Conte aveva bisogno di un consenso concreto, tangibile, elettorale. Una base, si sarebbe detto in altri tempi. Un territorio di riferimento che all’occorrenza potesse garantirgli un seggio, una poltrona, un arrocco, una via d’uscita. E il territorio non poteva che essere quello in cui era cresciuto, il Foggiano.

«Conte aveva un appuntamento per lui fondamentale,» continua il nostro aruspice «doveva andare a rovesciare una valanga di milioni sul bacino elettorale che nei suoi progetti doveva essere l’assicurazione sulla sua futura vita politica.»

Mentre Roma bruciava, dunque, l’uomo con il doppiopetto cercava i voti che non aveva mai avuto. Ad attenderlo c’era una persona che oggi gli italiani conoscono benissimo – ne saprebbero riconoscere all’istante l’accento fieramente calabrese, la cantilena, persino la mimica anche in mezzo a un milione di persone –, ma che al tempo era conosciuto solo ai più abili navigatori del potere romano, ai giocatori di burraco sulla terrazza di casa D’Alema nel quartiere Prati, proprio sopra alla bettola di Gianni Cacio e Pepe, o ai campioni del Risiko per le nomine ai vertici delle controllate statali: Domenico Arcuri.

Cioè l’amministratore delegato di Invitalia, l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa che raccoglie i resti di Sviluppo Italia, altrimenti detta, con uno slancio financo eccessivo, la «Nuova Iri».

Arcuri aveva un bel regalo per il premier uscente: 280 milioni di euro da versare, non senza conferenza stampa e photo opportunity, sul territorio foggiano. Si trattava del cosiddetto Contratto istituzionale di sviluppo (Cis) per la Capitanata, per usare il secondo nome di tradizione bizantina della provincia di Foggia.

Recitava il comunicato stampa di Invitalia: «Con la firma del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, al Contratto istituzionale di sviluppo questa mattina a Foggia è stato dato il via libera definitivo ai cantieri dei quaranta interventi finalizzati al rilancio e allo sviluppo del territorio della Capitanata, a cui si aggiungono altri quattro progetti finanziati con altri fondi». La conferenza stampa con cui Conte ha illustrato il trionfo, aveva i toni del comizio democristiano anni Cinquanta. Il premier parlava di «contratto corale». Di «visione prospettica». Assicurando che l’investimento da lui portato nel Foggiano avrebbe in qualche modo prodotto – per un misterioso «effetto moltiplicatore» che, mesi più tardi, agli italiani, diventerà tristemente familiare – 568 milioni. Non un milione di più, non uno di meno.

Le parole testuali furono: «Grazie alla sagacia tecnica e alla competenza del dottor Arcuri, Ad di Invitalia, firmiamo un contratto per quaranta progetti immediatamente realizzabili, gare per oltre 280 milioni, che già finanziamo, per l’intera provincia di Foggia: quindici comuni, due consorzi, tre imprese, varie fondazioni.

Questo già produce un effetto moltiplicatore fino a 568 milioni, non è un progetto eteroimposto, ma progetti che nascono dalla conoscenza del territorio». Nel discorso ai foggiani si rintracciano almeno due degli stilemi che faranno da perno a quella che sarà l’intera comunicazione durante l’emergenza coronavirus: il dispiegamento massiccio (diciamo pure l’abuso) degli avverbi temporali, tra i quali il più ambiguo di tutti «immediatamente», e l’uso del «Coefficiente Arcuri» (Ca).

Trattasi, spiegano gli aruspici, di un misterioso meccanismo moltiplicatore, il cui funzionamento è prossimo a quello dell’arrotondamento, per cui un numero, dopo un brevissimo giro di parole, cresce o decresce (alla bisogna) fino a raddoppiare, a volte persino a triplicare. In alcune culture indigene della Toscana, lo chiamano «supercazzola».

Per spiegarlo useremo un accostamento che speriamo non suoni blasfemo: la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Invece dei pesci, alla Capitanata Conte si fa portare 280 milioni che, nella durata fuggevole di una conferenza stampa, si trasformano in 568. Il doppio. Così, d’emblée. I numeri sparati, se non proprio a casaccio diciamo quantomeno con troppa leggerezza, così come gli annunci di problemi «già» definitivamente risolti e di piaghe «immediatamente» debellate (esempio rapido: «la speculazione sulle mascherine è finita», Arcuri, 2 maggio 2020, con le farmacie ancora piene di chirurgiche a 5 euro) saranno uno dei principali refrain dell’intera emergenza Covid, durante la quale il miracolo si ripeterà quotidianamente. Moltiplicando di volta in volta – e sempre senza alcun riscontro o contraddittorio – mascherine, reagenti, tamponi, monopattini, risorse finanziarie, garanzie bancarie, biciclette, baby sitter, tavolini di ristoranti, finanziamenti per le aziende in crisi, soldi per i cassintegrati.

Il denaro versato dallo Stato sul territorio brullo della Capitanata valse a Conte un vero e proprio bagno di folla. Alle 16.05 di quel giorno, un lancio dell’agenzia Dire, usa questi toni: «A Foggia Conte trova tanti compaesani, ma anche molti militanti M5S che lo accolgono con striscioni, cartelli e cori da stadio, lo incitano a “non mollare”, e lo consacrano al grido “o-ne-stà, o-ne-stà”. Un battesimo del fuoco. “Non me lo aspettavo” commenta lui quasi commosso, lanciando baci a due mani dal suo predellino, una transenna, alla folla che lo acclama. Firma persino una chitarra, riceve la Carta di padre Pio, quindi dà il via a quello che potrebbe essere il suo ultimo atto da premier, il sigillo sul contratto di sviluppo della Capitanata. Stasera al Senato lo aspetta il Capitano, pronto ad accelerare sulla crisi, secondo i boatos determinato a ritirare la delegazione ministeriale pur di arroventare ancora di più la poltrona di Palazzo Chigi».

Tanta gloria era prevedibile. «Conte» prosegue nell’analisi l’acuto aruspice «aveva scelto il Foggiano con molta cura e con la consueta furbizia. Lì è cresciuto e la sua famiglia è nota. E il territorio è oggettivamente tra i più trascurati d’Italia; le condizioni ideali per radicare il proprio bacino elettorale.» Un ruolo chiave, in questa vicenda, ce l’ha padre Pio, a cui il premier è notoriamente devoto. (...)

Da quel giorno in avanti Conte, scioccato dalla paura di perdere per sempre il potere, ha smesso di agire semplicemente come premier – cercando di attuare un programma di governo, nella corretta convinzione di essere un giorno giudicato per quello che sarà stato in grado di realizzare – e ha cominciato a comportarsi più propriamente come il presidente di un partito politico, il suo personale, alla stregua di uno stakeholder della maggioranza.»

Trovano così spiegazione le continue accelerazioni comunicative, l’anticipazione mediatica di ogni decisione presa dal consesso dei ministri, l’abuso del Coefficiente Arcuri, il dare per risolti problemi mai nemmeno presi seriamente in considerazione, la creazione compulsiva di task force, il rivolgersi direttamente allo stomaco del Paese e mai alla testa. Superficialità ed emotività. E questo ci porta diritti al nocciolo della questione: la pandemia in Italia è stata trattata, dal punto di vista della comunicazione, come una campagna elettorale e non come un’emergenza.

Con la leggerezza semiotica, cioè, di un comizio e non con la cautela e la precisione della comunicazione di crisi. Nella sintassi del discorso pubblico, le iperboli e le promesse, quando non direttamente le bugie, hanno preso il posto delle spiegazioni e dei fatti certi, con l’obiettivo di suggestionare i cittadini piuttosto che indicare loro un sentiero chiaro per uscire dalla crisi del Covid-19.

Se mettessimo in fila, e più avanti lo faremo, tutti i quantitativi di mascherine annunciati da Arcuri nel ruolo di commissario straordinario (piccolo spoiler: «Per le prossime settimane l’Italia potrà contare su 650 milioni di mascherine, il peggio è ormai alle spalle», 7 aprile 2020), ne avremmo avute a sufficienza persino per metterle al nostro gatto. Invece la realtà è stata che non si trovavano, negli ospedali ancora all’inizio di aprile gli operatori sanitari erano costretti a utilizzare più volte le monouso Si dice che il governo abbia trattato gli italiani come bambini, più propriamente sarebbe corretto dire che li ha trattati come bambini elettori. Dunque sudditi. 


Marco Mesurati e Fabio Tonacci sono gli autori del libro Scimmie al volante, edito da Bur Rizzoli

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