I giochi elettorali non giovano alla complessità del pensiero, basta assistere a qualche talk politico in tivù per rendersene conto. Confessarsi impotenti nella direzione di alcuni grandi processi non vuol dire decretare l’inutilità della politica, anzi si guadagnerebbe in chiarezza sulle questioni che invece sono affrontabili
Quand’ero giovane era di moda sui giornali la “cartina di tornasole”: nessuno sapeva cosa fosse il tornasole (una sostanza che permette di misurare l’acidità), ma la metafora veniva usata per alludere a un evento che poteva valere come indicatore di uno stato delle cose.
Mi pare che ora la protesta degli agricoltori, coi loro trattori in marcia verso Roma e Sanremo, possa funzionare come cartina di tornasole. Nel passato le proteste contadine si sono presentate in genere sotto due specie opposte: o come rivolte di classe (poveri contro ricchi, servi contro padroni) potenzialmente rivoluzionarie, o come resistenza contro rivoluzioni salite al potere (i vandeani, i sanfedisti, i kulaki).
Molto più rare sono le testimonianze di proteste contadine appoggiate da un governo in carica, o almeno da una parte di esso. «Non prendetevela con noi», dicono i leghisti e con più cautela Giorgia Meloni, «noi siamo dalla vostra parte, prendetevela con l’Europa». Certo i “contadini” non sono più quelli di una volta: finita la mezzadria, si tratta in genere di piccoli imprenditori agricoli che si avvalgono di mezzi moderni e diserbanti chimici – la distinzione è semmai tra piccola e grande proprietà: i braccianti (italiani o extracomunitari) non possiedono trattori.
La destra che li appoggia ricorre a nostalgie georgiche un po’ da libro di lettura (le scarpe sporche di letame, la levataccia alle quattro del mattino per darci latte fresco e verdure genuine). Il centro-sinistra si mostra incerto tra liberalismo classico e antico riflesso condizionato dalla memoria di Giuseppe Di Vittorio: incentivi esagerati e pagati da tutti noi per prodotti che sono ormai fuori mercato a livello mondiale, insomma contadini europei un po’ viziati, ma anche strozzati dalla grande distribuzione; quindi invocazione della filiera corta, protezionismo magari un pochino però moderato.
Il Green deal
Più netta è la differenza tra le parti politiche quando si parla del Green deal appunto europeo: mentre a destra si dubita che il cambiamento climatico sia da attribuire alla responsabilità umana, o addirittura che stia avvenendo davvero un cambiamento, e si sospetta che sia tutta una manovra di certe cattive multinazionali, a sinistra non si sghignazza su Greta Thunberg e si prende sul serio il disastro annunciato. Entrambe le parti però convergono nell’idea che bisogna evitare l’allarmismo, e che la maggioranza delle emissioni di CO2 non sono da addebitare all’Europa ma alle potenze industriali vecchie e nuove come la Cina, gli Usa e l’India.
Nessuno può negare che ridurre adesso le misure che l’Europa ha preso (come suggerisce la tattica del compromesso, soprattutto in campagna elettorale) possa dimostrarsi alla lunga rovinosamente controproducente, che si creda o no all’emergenza. Gli agricoltori stessi stanno già provando sulla loro terra gli effetti della siccità, delle alluvioni e delle stagioni impazzite.
Qui torna buona la metafora della cartina di tornasole. Non è solo a proposito del limitato fenomeno dei trattori che destra e sinistra si trovano a dover affrontare problemi complessi, con radici contraddittorie, in cui i torti e le ragioni necessitano di riflessioni non facili, e soprattutto non è solo sull’agricoltura che la politica deve (o dovrebbe) confessare la propria attuale confusione.
I ludi elettorali non giovano alla complessità del pensiero, basta assistere a qualche talk politico in tivù per rendersene conto. Non oso immaginare che succederà se davvero ci sarà il faccia-a-faccia di Meloni ed Elly Schlein da Bruno Vespa; dalle avvisaglie si rischia di assistere a uno scontro fatto per la maggior parte di ripicche, di “ma voi perché non l’avete fatto quando…”, “guardi che c’era lei”, “non accetto lezioni da chi…”, eccetera. Con tifosi (maschi) che si entusiasmano per le repliche più ficcanti e scommettono su quale delle due signore riuscirà a “cacciar fuori le palle”.
La battaglia dei like
Ma anche senza evocare questi orrori, è inevitabile che nella ricerca democratica del consenso si punti su argomenti tagliati con l’accetta, più diretti all’emotività che alla razionalità; prendendo esempio dai social, vince chi rimedia più like (che poi sarebbero i voti), e semplificare è una tecnica raccomandata da ogni spin doctor.
Fino a precipitare, talvolta, nel giardino d’infanzia: nel “ridammi i miei giochi che vado a giocare sul mio uscio” e nella dinamica dello “specchio riflesso”. Così si rimanda sul fondo, elezione dopo elezione e per sempre, un grande atto di verità che la politica nazionale, tutta insieme, una volta o l’altra dovrebbe pur compiere – ammettere che ci sono problemi rispetto ai quali è di fatto sostanzialmente impotente.
Uno l’abbiamo appena evocato ed è quello dell’emergenza climatica: i mutamenti geopolitici in atto rendono impossibile un accordo che non sia di facciata e di rinvio, il famoso aumento di due gradi della temperatura mondiale verrà superato, con le conseguenze che ormai si prospettano chiare in termini di scioglimento dei ghiacci, e se il mondo intero è impotente figuriamoci l’Italia.
Confessarsi impotenti nella direzione di alcuni grandi processi non vuol dire decretare l’inutilità della politica, anzi si guadagnerebbe in chiarezza sulle questioni che invece sono affrontabili: l’economia nazionale ed europea nelle sue articolazioni di dettaglio, per esempio, o il rapporto civile tra i cittadini, o le riforme istituzionali, o l’organizzazione della giustizia e della sanità, tanto per dire le prime che mi vengono in mente.
Anche le discussioni nei talk ci guadagnerebbero in concretezza. Sarebbe istruttivo capire che cosa è possibile e che cosa no, senza rivoluzionare lo stato di cose esistente. La finanza è davvero governabile dalle politiche nazionali? Fino a che punto la politica è diventata ancella della tecnologia? La politica può impedire con motivazioni etiche quel che per la tecnologia sarebbe già fattibile, e si può censurare la scienza? La demografia mondiale è controllabile dall’occidente, l’Europa sta diventando la Rsa del mondo intero? A che punto è la notte?
Destra e sinistra
Di queste cose è impregnata la cultura, molto più di chi va a dirigere questo o quel teatro. La destra incamera consensi esaltando il “tornare a come si viveva prima”, il conservatorismo fa sentire a casa: viva il presepe e il pane casalingo, un uomo è un uomo e una donna è una donna, non si risponde male a scuola, i nonni sono una riserva di saggezza.
Ora come ora in Italia la destra è più coesa della sinistra e può programmare sui tempi lunghi, ma non lunghi abbastanza per prevedere (malgrado la consulenza di Elon Musk) le potenti mutazioni antropologiche in arrivo. Tanto più che oscilla, al proprio interno, tra thatcherismo e destra sociale.
Un baco la corrode e la costringe sulla difensiva: sorvegliare e punire, autosufficienza alimentare come prodromo a un’economia di guerra, mondialismo inteso come somma di piccole e grandi patrie, sentirsi vittime anche comandando.
La sinistra, dal canto suo, ha più difficoltà a immaginare una strategia del progresso; oscilla tra operaismo e culturalismo (legato ai temi dell’inclusione civile delle minoranze). La cultura “woke” è diventata un brand delle multinazionali “leggere”, quelle della comunicazione mondiale omologata; nella Silicon Valley sono diffusissimi i “diversity awareness months”, la fluidità sessuale è funzionale alla fluidità neo-capitalistica. Come scrive Mimmo Cangiano in un bel libretto appena uscito da Nottetempo, la sinistra rischia di diventare «il dipartimento risorse umane del capitale». La rivoluzione è un mito lontano e, paradossalmente, conservatore.
Il generale Roberti Vannacci e il padre di Giulia Cecchettin saranno presumibilmente rivali nelle classifiche di vendita dei loro libri; la vera cultura egemone è la confusione. Restano due idoli culturalmente intoccabili dalla politica politicante, due capisaldi che in Italia vengono icasticamente rappresentati dal presidente Sergio Mattarella: l’umanesimo e la democrazia, che nessuno osa mettere in discussione. Due monumenti culturali che sono apparsi in periodi storici diversi, ma che forse stanno morendo insieme.
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