- L’estate è per la destra italiana la più crudele delle stagioni: comincia con i trionfi e finisce nel furore. È il momento delle cadute, dal Papeete di Salvini al Twiga di Santanchè-
- L’assedio arriva dall’interno, i principali nemici del governo, si direbbe, sono le alte cariche che parlano a sproposito, i ministri che sequestrano le aule parlamentari. Lo spettro dell’auto-affondamento per eccesso di arroganza, o di insicurezza.
- L’estate è sempre stata fatale nella storia della politica italiana. Ma nel 1964 il piano del colpo di stato per installare un governo d’emergenza non scattò. Partì un secondo governo Moro, politicamente più debole, con il Psi costretto a cedere sulle riforme più incisive
Dal Papeete al Twiga, l’estate è per la destra italiana la più crudele delle stagioni, piene di baci perduti, come nella canzone di Bruno Martino, che cominciano con i trionfi e finiscono nel furore. Il momento delle cadute.
Nell’estate del 2019, il cuore della politica diventa lo stabilimento di Milano Marittima, gestito dall’amico Massimo Casanova, europarlamentare della Lega.
C’è il vicepremier, ministro dell’Interno, senatore, leader della Lega, Sua Eccellenza il Capitano Matteo Salvini in vacanza, i cronisti accorrono. E via con i reportage compiacenti sui pasti, gli spaghetti con le vongole, la pasta con le cozze, le code per il selfie, il ministro in bermuda blu e infradito nere, gli agenti di scorta che bloccano il videomaker impegnato a filmare il figlio del ministro sulla moto d’acqua della polizia.
Le cubiste e i bagnanti in mutande che ballano al ritmo di Mameli, con la mano sul petto arrostito dal sole, a celebrare la patria sul bagnasciuga, fratelli di mojito.
Intanto, il 1° agosto la nave Open Arms salva 52 persone al largo della Libia, l’8 agosto altre 69, l’ong chiede un porto sicuro dove sbarcare, il governo dice di no, c’è ancora Giuseppe Conte a palazzo Chigi con la maggioranza gialloverde. A dare solidarietà ai migranti alla deriva arriva Richard Gere.
«Lo ringraziamo per la sua preoccupazione, potrà portare i migranti a Hollywood, col suo aereo privato, tutti a bordo, e mantenerli nelle sue ville. Grazie Richard!», lo attacca Salvini.
Giorgia Meloni, in quel momento comprimaria della Lega all’opposizione, se la prende con Antonio Banderas: «Sono sempre tutti bravi a fare i solidali con i porti degli altri».
Perché, evidentemente, non si può essere ricchi e solidali. La Open Arms arriva finalmente nel porto di Lampedusa la sera del 20 agosto. Ma il governo non c’è più, qualche ora prima Conte è andato a dimettersi al Quirinale dopo un epico scontro nell’aula del Senato con Salvini che ha lasciato la maggioranza.
È l’inizio della crisi d’estate del 2019, i gialloverdi si squagliano nelle aule del parlamento italiano dopo essersi dissolti nel parlamento europeo al momento di votare per la presidente Ursula von der Leyen, i 5 Stelle entrano in maggioranza, la Lega che pure ha vinto le elezioni con il 34 per cento resta fuori.
Salvini punta al voto e ai pieni poteri, al Papeete sembra incarnare in modo fisico il nuovo potere della destra. Invece perderà tutto: la presenza al governo, il ruolo guida del centrodestra. Oggi Salvini, di nuovo al governo ma come junior partner di Giorgia, è sotto processo a Palermo per la Open Arms, imputato di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio.
«I profughi soccorsi erano sul ponte, avevamo due bagni, donne e bambini erano separati da una striscia di plastica, con poca acqua che cercavamo di tenere da parte», ha testimoniato tre giorni fa Francisco Gentico, volontario di Open Arms. E la maledizione dell'estate torna ad abbattersi su un altro governo della destra.
La Twigacrazia
«Scordatevi il Twiga, Flavio Briatore, il lusso sfrontato e un po’ cafone delle estati con Silvio Berlusconi, la sua bandana e Daniela Santanchè. Roba vecchia, quella. Immagini sfocate di un tempo che fu. Adesso, nell’era del sovranismo padrone e dei selfie all’impazzata, il nuovo potere proietta se stesso sugli schermi di milioni di smartphone, tra corpi sudati, pance in fuori e cubiste desnude», scrisse Vittorio Malagutti sull’Espresso nell’estate 2019, quando il Papeete sembrava avere conquistato l’egemonia (culturale).
Oggi, invece, il Twiga si prende la rivincita, torna a turbare le giornate del governo della destra, con l’inchiesta di Report su Raitre e le rivelazioni di Domani sugli affari della ministra del Turismo Daniela Santanchè, firmate da Giovanni Tizian: la notizia dell’inchiesta a Milano, la villa in pegno per i debiti di Visibilia, la società Ldd, costituita nell’aprile 2023, dopo sei mesi di governo, che incassa una percentuale sul fatturato del Twiga, nonostante la cessione delle quote al momento della nomina a ministra del Turismo che avevano consentito a Santanchè di sbandierare l’assenza del conflitto di interessi.
«Sono una persona contenta di quello che ha nella vita, felice e che non odia il mondo, perché la mattina, quando mi guardo allo specchio, mi piace l’immagine che vedo riflessa», si è vantata la ministra nell’aula del Senato.
«Mi fa sorridere che le critiche più feroci vengano da molti che in privato hanno tutto un altro atteggiamento nei miei confronti e a cui a volte fa anche piacere prenotare e andare nei locali di intrattenimento che ho fondato, ma io sono felice di averlo fatto, e mi fermo qui, per carità di patria».
Quasi un manifesto. La rivendicazione orgogliosa della joie de vivre che non conosce regole, di un potere fondato sul privato, sull’intrattenimento, sull’invito e sulla prenotazione, sul Twiga. La Twigacrazia.
La Russa e Grillo
Passano due giorni e viene pubblicata la notizia della denuncia presentata alla procura di Milano da una ragazza che accusa il figlio del presidente del Senato Ignazio La Russa di averla violentata nella casa di Milano della seconda carica dello stato, dopo una serata all’Aphopis Club.
Anche questa è una strana ricorrenza che collega l’estate del 2023 all’estate 2019. Quando a essere coinvolto in un caso analogo fu Ciro Grillo, oggi sotto processo per violenza sessuale a Tempio Pausania: la prossima udienza è in programma oggi, 10 luglio.
Nell’estate 2019 si venne a sapere della denuncia di una ragazza italo-norvegese, e poi dell’inchiesta, in modo tardivo: i fatti (nella casa di Grillo al Pevero, a Porto Cervo, dopo una serata al Billionaire fondato da Flavio Briatore) risalivano al 16 luglio, la denuncia arrivò il 26, la notizia uscì il 6 settembre.
Nel frattempo il padre di Ciro, Beppe Grillo, era stato decisivo per spingere il Movimento 5 stelle di cui è garante a fare un governo con il Pd, il giallorosso Conte 2.
«Una persona che viene stuprata la mattina, il pomeriggio fa kitesurf e denuncia dopo otto giorni è strano», attaccò in un video Grillo il 19 aprile 2021. «Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio», ha dichiarato in prima battuta tre giorni fa La Russa, prima di ritrattare frettolosamente.
Comprensibile la sofferenza dei padri per il coinvolgimento dei figli, di cui va ribadita la presunzione di innocenza. Ingiustificabile, in nome di un potere politico, mediatico e istituzionale, calpestare il diritto di giovani donne di denunciare l'abuso della loro persona.
Come disse Giorgia Meloni due anni fa: «Il video di Grillo mi ha colpito e anche il modo in cui ha minimizzato su un tema pesante come quello della presunta violenza sessuale. Mi è sembrato distonico un Beppe Grillo che attacca la magistratura dopo aver usato il giustizialismo spinto per tanti anni e averne fatto cassa di voti».
Il silenzio della premier
Oggi la premier tace. Giorgia Meloni è costretta a restare senza parole da giorni. O a esprimersi per fonti anonime sulle agenzie, come la dichiarazione di «fonti di palazzo Chigi» contro la magistratura che avrebbe cominciato a svolgere un ruolo di opposizione e di inaugurare la campagna elettorale in vista del voto europeo del 2024 per l’imputazione coatta per il sottosegretario Andrea Delmastro sul caso Cospito e per l’inchiesta su Santanché.
È il silenzio di Meloni il segno più evidente dell’estate 2023. A preoccupare Giorgia Meloni, come ha scritto ieri Ferruccio De Bortoli sul Corriere della Sera, è il ricordo di un’altra estate, l’estate del 2011, vissuta da ministra della Gioventù del governo Berlusconi, quando arrivò la lettera della Bce firmata Draghi-Trichet, per la destra la prova di un golpe europeo ordito dai poteri forti contro Berlusconi, costretto a dimettersi in autunno.
Ma non ci sono oggi poteri forti che complottano, semmai la realtà che non segue la propaganda. Per esempio, gli sbarchi: oggi i migranti approdati in Italia sono arrivati a 70mila, erano 30mila nel 2022, quando la destra prometteva di arrivare al governo per bloccarli, 22mila nel 2021.
Le prefetture sono allertate, nei comuni c’è l’allarme rosso per il mare calmo d’estate. Ieri papa Francesco ha salutato all’Angelus Mediterraea Saving Humans «per il salvataggio dei migranti in mare», dopo aver inserito il capomissione della Ong Luca Casarini tra gli invitati speciali del prossimo Sinodo.
Don Mattia Ferrari, il giovane cappellano, ha denunciato nei giorni scorsi i lager, le violenze e le torture tra Libia e Tunisia, dove il governo italiano vorrebbe esportare il piano Mattei.
L’unica vera differenza con il passato è che i migranti sono spariti dagli schermi: non esistono più sui giornali, sui tg, nei talk show. Lezione numero uno per l’ufficio propaganda Meloni: se non sai risolvere un problema, fallo sparire dall’agenda.
Oppure fai come consiglia Giuseppe De Rita sulla Stampa: una fase di bonaccia dopo quella del rancore, «in cui vince chi chiude il recinto e ci dice di stare sicuri e protetti nel cortile di casa».
La lezione numero due, per ora inascoltata, sarebbe questa: non ci sono poteri forti che assediano dall’esterno, né una opposizione ancora debole e divisa, anche se negli ultimi giorni le reazioni della segretaria del Pd Schlein sono state tempestive e centrate.
L’assedio arriva dall’interno, i principali nemici del governo, si direbbe, sono le alte cariche che parlano a sproposito, i ministri che sequestrano le aule parlamentari per parlare dei loro affari privati, l’indisponibilità di ammettere sbagli e errori che è l’anticamera dello scollamento dalla realtà. È questo spettro del Papeete, l’auto-affondamento per eccesso di arroganza, o di insicurezza.
Le estati della Prima repubblica
Il Papeete e il Twiga, e prima ancora la berlusconiana Villa Certosa, sono luoghi della politica impensabili durante la Prima Repubblica, quando le estati dei politici trascorrevano nella riservatezza di monasteri e di spiagge di periferia.
Andreotti nel convento delle Orsoline, a scrivere libri. Forlani, appena scomparso, sul lettino di Pesaro, la sua città. Il ministro abruzzese Remo Gaspari riceveva sotto l’ombrellone dell’hotel Sabrina di Marina di Vasto, nel suo collegio elettorale.
Moro in giacca e cravatta e cappotto in mano sotto il sole sul lungomare di Terracina, fotografato da Vezio Sabatini per uno storico servizio di Guido Quaranta per Panorama, nell’estate 1972.
Al confronto, sembrava eccentrico Emilio Colombo, pizzicato dai paparazzi in costume su uno scoglio, spruzzato dalle onde. Le estati politiche, invece, erano torride. Si aprivano con una crisi di governo e si chiudevano con la formazione di un governo balneare, da far cadere alla fine delle ferie. In alcuni casi, agitate e pericolose, come ricorderà Moro nel 1978, nel suo memoriale ritrovato nel covo milanese delle Brigate rosse: «In complesso il periodo 60-64 fu estremamente agitato e pericoloso».
«Il 14 luglio del 1964 fu la giornata più calda dell’anno: 36 gradi all’ombra...». Cominciava così l’articolo di Lino Jannuzzi (14 maggio 1967), una delle inchieste più famose della storia del giornalismo italiano, lo scoop dell’Espresso diretto da Eugenio Scalfari sul tentato colpo di Stato nell’estate 1964.
In quel giorno, secondo la ricostruzione, il generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo aveva convocato generali di divisione e di brigata, colonnelli, alti ufficiali. Nella giornata più calda, avevano sudato ancora di più sotto la divisa ad ascoltare il proclama del generale: «La nazione ha bisogno di noi».
È il Piano Solo, il tintinnar di sciabole che agitava l’accaldata politica romana alle prese con la prima crisi del governo di centro-sinistra presieduto da Aldo Moro, con i socialisti insieme alla Dc.
A Roma si respirava, scrisse il francese Le Figaro, «una strana psicosi da colpo di Stato». In cui si incrociavano, al solito, scenari internazionali, preoccupazioni interne, vanità personali.
Il progetto del presidente della Repubblica Antonio Segni era un governo del Quirinale fuori dai partiti. Era stato il primo capo riconosciuto della Dc a salire sul Colle nel 1962, leader della corrente dorotea, ma voleva chiudere con il centrosinistra.
Dopo la caduta del primo governo Moro coltivava il progetto di un esecutivo di salvezza nazionale guidato dal presidente del Senato Cesare Merzagora, la lista dei ministri era già pronta, scritta a mano su carta intestata Excelsior Albergo Gallia Milano.
Vice presidente al coordinamento economico l'ex governatore di Banca d'Italia Donato Menichella, ministro del Tesoro Enrico Cuccia. Dentro i dc Fanfani e Moro, i laici Saragat, La Malfa e Malagodi, il socialista Giolitti, ma anche il comunista Luigi Longo, e perfino un missino, Nencioni o Crollanza. Il primo governo di unità nazionale della storia repubblicana.
«Improvvisamente il parlamento e i partiti hanno avvertito che potevano essere scavalcati. La sola alternativa è stata quella di un governo di emergenza, affidato a personalità così dette eminenti, a tecnici, a servitori disinteressati dello Stato, che nella realtà del paese qual è, sarebbe stato il governo delle destre, con un contenuto fascistico-agrario-industriale, nei cui confronti il ricordo del luglio 1960 sarebbe impallidito», scrisse Nenni su L’Avanti! il 26 luglio 1964.
Il luglio 1960, ovvero gli scontri in piazza tra i manifestanti e la polizia del governo di Fernando Tambroni, il primo con i voti determinanti del Movimento sociale.
Il Pci, per dire della complessità, aveva provato a entrare in gioco. Il segretario Palmiro Togliatti non nascondeva la soddisfazione per il fallimento del governo di centrosinistra con i socialisti. «Di governi di emergenza ve ne possono essere di diversi e ciò implica posizioni nostre diverse», aveva dettato il Migliore nella direzione del Pci del 15 luglio 1964, sconfessando un giovane deputato che proponeva una mozione contro i dorotei, si chiamava Giorgio Napolitano, l’uomo che da presidente della Repubblica sarà indicato decenni dopo dalla destra come il regista del “golpe” dell’estate 2011 concluso con la nomina del governo tecnico di Monti.
Alla fine nel 1964 il piano, il colpo di stato, il golpe o il governo di emergenza non scattò. Partì un secondo governo Moro, politicamente più debole, con il Psi costretto a cedere sulle riforme più incisive, il presidente Segni ebbe un malore e si dimise. Il 21 agosto morì Togliatti a Yalta, un mese dopo quella riunione in cui aveva visto lo spazio per tornare al centro dei giochi. Il funerale a San Giovanni fu maestoso, di bandiere rosse al vento come nel dipinto di Renato Guttuso, «in una Italia gaudente e volgare», scrisse lo storico Giuliano Procacci.
Un’Italia che in realtà era più moderna e più attenta ai suoi diritti, come avrebbe dimostrato da lì a poco l’onda della contestazione sessantottina.
Quanto al gaudente e al volgare, beh, non si era ancora visto niente.
© Riproduzione riservata