- La Farnesina dice di non aver agito sull’incontro tra le aziende italiane e Putin perché «non siamo in un sistema sovietico».
- Eppure Palazzo Chigi aveva cercato, fallendo, di evitare la partecipazione delle aziende di stato.
- Da quanto risulta a Domani, è la seconda volta in pochi mesi che i due palazzi si muovono separatamente su dossier delicatissimi: il precedente la scelta del ritiro dell’ambasciatore da Kabul
«Il nostro non è un sistema sovietico», hanno fatto sapere dalla Farnesina all’indomani dell’incontro tra i vertici di 16 grandi aziende italiane e il presidente russo Vladimir Putin, bollato come «inopportuno» dalla Commissione europea e da cui palazzo Chigi ha tentato, invano, considerata la presenza di una azienda di peso come Enel, di tenere fuori le grandi partecipate di stato.
Non serve però essere una dittatura sovietica per fare in modo che la presidenza del Consiglio e il ministero degli Esteri si muovano in maniera coerente su dossier così sensibili, basterebbe che la macchina dello stato si coordinasse. Invece da diversi mesi la cinghia di trasmissione tra palazzo Chigi e Farnesina non funziona.
Il precedente di Kabul
Prima dell’episodio dell’incontro con Putin, oggetto di critica internazionale, c’era stato quello del ritiro del nostro ambasciatore da Kabul, Vittorio Sandalli, riportato in fretta a Roma mentre i rappresentanti degli altri paesi europei gestivano la caotica ritirata del personale diplomatico e dei concittadini europei dall’Afghanistan sul campo.
La Farnesina, allora, aveva lavorato alacremente per ridimensionare la scelta, con una opera di contronarrazione che aveva trovato nel certamente coraggioso referente consolare Tommaso Claudi un eroe su cui sviare l’attenzione – «in una foto lo si vede aiutare un bambino in lacrime a superare un muro nell'aeroporto di Kabul», si leggeva nelle cronache di quei giorni.
A coronare l’opera, Luigi Di Maio aveva salutato il ritorno del diplomatico italiano e dell’ambasciatore Stefano Pontecorvo, impegnato a Kabul come massimo rappresentate civile della Nato e anche lui utilizzato per dimostrare la nostra presenza diplomatica sul campo, con un post su Facebook in cui sottolineava che i due assieme ai carabinieri del reparto Tuscania «erano rimasti ancora sul posto».
I due palazzi
Secondo quanto riferito da fonti del governo, però, la realtà di quei giorni era ben diversa. La decisione del ritiro dell’ambasciatore non era stata affatto condivisa con vertici del governo, anzi era stata subita malvolentieri e a forza digerita considerando la situazione delicata e complessa della crisi in corso.
La distonia tra palazzo Chigi e Farnesina non è una novità nella storia della politica estera italiana, ma per Di Maio e per il paese sta diventando una faccenda imbarazzante.
L’attuale ministro degli Esteri è stato spesso pregiudizialmente schernito e politicamente sottovalutato. Gli ambasciatori europei di stanza in Italia non solo lo rispettano, ma ne elogiano l’intelligenza politica che l’uomo sicuramente ha.
Nella sua permanenza alla Farnesina, Di Maio ha ingrossato le competenze del ministero riportando sotto il cappello diplomatico il commercio internazionale, una risposta a una richiesta che da tempo veniva avanzata dal ministero.
Nel suo tentativo di far dimenticare una lunga serie di pericolose scivolate internazionali, dalle gite coi gilet gialli agli innamoramenti cinesi sulla via della Seta, Di Maio è stato nel 2020 durante il governo Conte II molto più netto sul fronte dell’atlantismo del suo stesso premier, missione pur non molto difficoltosa. Ora con Draghi a palazzo Chigi però i limiti della gestione Di Maio stanno affiorando e la comunicazione tra governo e ministero degli Esteri sta facendo acqua da molte parti.
Con Putin si è toccato l’apice, considerando che prima della dichiarazione anti sovietica del ministero, tre parlamentari sono arrivati ad affermare che l’incontro con mezzo governo russo era avvenuto all’insaputa della Farnesina. Il tutto mentre una struttura come la Comunità di Sant’Egidio in pochi giorni è riuscita a organizzare per questo sabato un incontro religioso sull’Ucraina con ambasciatore russo e incaricati di affari statunitensi e ucraini.
C’erano già stati altri “all’insaputa” negli ultimi mesi: Di Maio non aveva avuto remore nel dire al parlamento che della lettera inviata da dieci ambasciatori europei per chiedere alla Turchia il rilascio del filantropo Osman Kavala lui «non sapeva nulla». Quando lo scorso aprile la leader dell’opposizione bielorussa, Sviatlana Tsikhanouskaya, aveva organizzato una tre giorni in Italia, c’era voluto il pressing parlamentare perché il ministro raddrizzasse l’agenda e la incontrasse, ma in quei casi anche il governo era allineato. Oggi invece sembra che la gestione di dossier delicatissimi sia, più che all’insaputa di Di Maio, all’insaputa dello staff di Draghi.
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