I dossier più delicati sono stati congelati dal governo per evitare altre tensioni politiche, così il paese è bloccato. Le società pubbliche sono in attesa delle decisioni di palazzo Chigi: Meloni vuole rinnovare i cda solo dopo il voto
Ne riparliamo a settembre, è una delle espressioni paradigmatiche dei mesi di giugno e luglio in qualsiasi ambiente di lavoro. In ogni ufficio, in centinaia di telefonate vengono rimandati i progetti all’arrivo dell’autunno, qualsiasi confronto nel merito slitta alla fine dei mesi estivi, forieri di una sorta di sospensione temporale. La politica non è da meno. Anzi.
Sta semplicemente mutuando questa logica in vista delle prossime elezioni. «Se ne parla dopo le europee», è il mantra che rimbalza da palazzo Chigi al Senato passando per la Camera. Non è da meno l’opposizione, il Pd ha congelato le tensioni interne, mettendo in stand-by il dibattito sul rapporto con il Movimento 5 stelle. Caricando di attesa il voto dell’8 e 9 giugno.
L’aria è questa, dunque. E dai decreti più caldi, in primis giustizia, ai provvedimenti sui conti pubblici, per reperire le risorse necessarie a garantire gli sgravi fiscali in busta paga, passando per le ataviche questioni, in testa le concessioni balneari, è tutto un susseguirsi di slittamenti.
Per non parlare dell’opzione messa in campo sulla richiesta di una proroga per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Sembrava una frase dal sen fuggita del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che ha fatto storcere il naso a qualche collega di governo, in primis il titolare della delega sul Pnrr, Raffaele Fitto. Vada come vada «se ne parla dopo le europee», secondo il tormentone del momento, la vera hit primaverile.
Nomine sospese
Una condizione di stand-by, di equilibrismo, che finisce per accumulare i dossier sul tavolo. E conferma in parte l’orientamento della destra al potere, abilissima a rinviare sine die i rebus più difficili. Il caso emblematico riguarda le nomine delle società pubbliche. La grande partita attesa per la primavera è stata rinviata a data da destinarsi. O meglio, a dopo le elezioni di giugno. Una prospettiva necessaria, ancora di più dopo che Giorgia Meloni ha deciso di candidarsi come capolista. Per quanto non sia in campagna elettorale ufficiale, svolgendo il ruolo di presidente del Consiglio a tempo pieno, ha preferito far slittare questo dossier.
Uno dei più urgenti e perciò tra i più delicati. Il calcolo è tutto politico: Meloni ha preferito prendere tempo per vari motivi. Il pensiero è rivolto ai rapporti con gli alleati della maggioranza, Matteo Salvini in testa ma anche Antonio Tajani, diventato più aggressivo dopo lo strappo sul decreto Superbonus. Il mix di nomine e campagna elettorale sarebbe stato esplosivo. Di mezzo c’è il risvolto del peso post elezioni: Fratelli d’Italia vuole fare l’asso pigliatutto, o quasi, dopo aver dimostrato di essere ancora nettamente il perno della coalizione. Valutazioni che tengono in stallo le scelte fondamentali.
La conseguenza? Le grandi aziende statali, da Cassa depositi e prestiti a Ferrovie dello stato, passando per Anas e Cinecittà, stanno andando avanti in regime di ordinaria amministrazione. Sebbene Meloni abbia già in testa come gestire la situazione, su quali nomi puntare. «Niente di sconvolgente», minimizzano fonti di maggioranza. Si tratta di una sospensione di un paio di mesi che incide in maniera relativa sulle strategie delle società.
Lo stato di sospensione politico si materializza nell’accumulazione quasi patologica di decreti attesi nei prossimi Consigli dei ministri. Un effetto paradossale: vengono infilati negli ordini del giorno delle riunioni a palazzo Chigi per rimandare la discussione di merito, in parlamento, a dopo il voto e a cavallo della pausa di agosto.
Esame estivo
L’esame nelle due camere, infatti, inizierà solo dopo il voto, entrando nel merito delle questioni a tempo debito, lontano dal clima infuocato del voto. Il destino che attende la famigerata riforma della Giustizia, partendo dal pomo della discordia: la separazione delle carriere. La bandierina, stando agli ultimi orientamenti, sarà piazzata prima delle europee. Stessa situazione sul mini-condono edilizio chiesto con insistenza da Matteo Salvini con l’etichetta di progetto “salva-casa” per sanare dei piccoli abusi nelle abitazioni. Il testo sarà, salvo slittamenti last minute, varato prima del voto di giugno e dovrebbe essere un decreto, nonostante bisognerà arrampicarsi per individuare le caratteristiche d’urgenza del provvedimento. Ma il dibattito nel merito avverrà solo in un secondo momento. Nemmeno a dirlo, dopo il voto.
Proprio in parlamento si sta palesando il clima elettorale di sospensione nella massima potenza. I lavori sono ridotti al minimo indispensabile. Ufficialmente la settimana di stop è solo la prima di giugno.
Parlamento elettorale
Ma da inizio maggio, il mercoledì pomeriggio a Montecitorio, al termine del question time che impegna i vari ministri, si sente il leggendario rumore dei trolley dei deputati che vanno via.
In calendario vengono inseriti i provvedimenti necessari, i decreti da convertire per evitare la scadenza, qualche mozione per riempire l’agenda. Poi poco altro. Il giovedì mattina il Transatlantico è già nella sua versione desertica. Al massimo compaiono testi-bandiera, dimenticati per mesi: uno degli esempi è il disegno di legge costituzionale di Roma capitale, finito nelle nebbie della commissione Affari costituzionali.
Lo scopo ufficiale è di rafforzare i poteri del Campidoglio, equiparandoli a quelli di una regione. Ma l’obiettivo ufficioso è un mini spot. I contenuti, infatti, saranno approfonditi dopo il voto, tanto per cambiare.
Sullo sfondo delle cose in sospeso c’è poi uno dei temi caldi: il rimpasto. Certo, Meloni ha perentoriamente negato di voler sostituire dei ministri, puntando a chiudere la legislatura con la stessa squadra o giù di lì. Salvo defezioni per altri motivi. Magari non ci saranno sconvolgimenti nella compagine governativa, sebbene prenda forma l’idea di un “rimpasto a pezzi” con la sostituzione al comando dei ministeri di volta in volta senza un pezzo unico. Di sicuro è rimasta in fase di stallo la scelta dei sostituti dei sottosegretari per l’Università e della Cultura, dopo le dimissioni di Augusta Montaruli e Vittorio Sgarbi. E quando si affronterà la questione? La risposta è ormai nota.
I conti dopo il voto
E non ci sono solo i posti da assegnare o misure promesse, in ballo c’è la tenuta dei conti italiani. La missione più delicata di tutte e che mette in ambasce palazzo Chigi. Il ministero dell’Economia di Giorgetti ha relazionato i colleghi di governo con dovizia di dettagli sulla condizione delicata delle casse pubbliche che sono vuote. Addirittura il Mef aveva deciso di non sterilizzare l’intera sugar tax, che sarebbe entrata in vigore a luglio seppure in versione dimezzata. Le pressioni degli alleati prima, Forza Italia in testa, e Meloni poi, hanno ammorbidito la posizione. La tassa sulle bevande zuccherate è stata posticipata al prossimo anno.
Fatto sta che la situazione è stata messa nero su bianco. Tra le poche informazioni contenute nel Def c’è quella sul nuovo record assoluto di debito pubblico, che nel 2025 sfonderà il tetto dei 3mila miliardi di euro con la spesa pensionistica destinata a crescere già a legislazione vigente, senza ulteriori interventi. Quelli che vengono richiesti proprio dal partito di Giorgetti, la Lega, attraverso il salviniano sottosegretario del Lavoro, Claudio Durigon, per dare voce ai sogni di gloria del leader.
Il ministro dell’Economia continua a esercitarsi nell’attacco al responsabile numero uno dell’aumento del debito, il solito Superbonus. Un perfetto capo espiatorio, come il Malaussène dei romanzi di Daniel Pennac. Perché, come tutti sanno, i problemi del debito pubblico italiano non sono di certo sorti negli ultimi mesi con gli incentivi introdotti dal governo Conte II per le ristrutturazioni edilizie. Ma l’esecutivo di Meloni deve comunque fare il minimo indispensabile per mantenere le promesse: prorogare il taglio del cuneo fiscale, finanziato solo per l’anno in corso. In ogni caso niente panico: se ne parla dopo le elezioni.
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