I voti su Kiev e sull’abuso d’ufficio hanno rivelato un partito molto meno unito di come la leader lo racconta. L’attesa della sua scelta sulle europee ha esaurito la tolleranza interna. Gentiloni non si candida alle Europee
Per il Pd questi sono i giorni delle commemorazione di David Sassoli, il presidente del parlamento europeo scomparso due anni fa. Anche le ore di qualche ipocrisia di una parte del gruppo dirigente. Non Elly Schlein, che giovedì mattina ha presentato le due giornate al fianco di Iratxe García Pérez, presidente del gruppo dei Socialisti e democratici al parlamento europeo.
Nel pomeriggio al Nazareno c’è stato l’incontro fra segreteria e bureau S&D. Oggi nella sala della Protomoteca in Campidoglio, alla presenza di Sandra Vittorini, moglie di Sassoli, parleranno fra gli altri il sindaco Roberto Gualtieri, García Pérez, Brando Benifei, Pina Picierno, Romano Prodi, Fabio Fazio e Schlein. Non saranno solo momenti di riflessione e raccoglimento. Nel Pd la “questione europea” si sta ingarbugliando.
Le divisioni andate in scena sul voto sugli aiuti all’Ucraina hanno svelato all’improvviso quello che cova sotto l’apparenza della pax democratica, che non regge più. A più riprese Schlein si è complimentata con i dirigenti Pd e con sé stessa per l’unità interna raggiunta. Wishful thinking di cui la segretaria si era quasi convinta. Allo scoccare del 2024 il velo si squarcia.
Nove parlamentari, tre alla Camera e sei al Senato, votano la mozione di maggioranza sull’Ucraina, perché, spiega Lorenzo Guerini, «da ministro ho votato cinque decreti per l’invio di armi all’Ucraina» e se stavolta non l’avesse fatto «non sarei stato credibile». Un partito di governo lo è anche quando è all’opposizione, dicono i sei «dissenzienti».
La segretaria avrebbe potuto prendere la parola almeno in una delle riunioni con i parlamentari, e spiegare che stavolta la delega al governo non si può dare perché al governo c’è una destra infida. Ha dovuto dirlo il giorno dopo, ex post: «Ci siamo astenuti» sulla risoluzione della maggioranza «perché non diamo deleghe in bianco in politica estera a un governo incapace». Ma la frittata era fatta.
Comporre le differenze
Il supporto all’Ucraina è tema centrale proprio nel «programma credibile» che Schlein annuncia per le europee. Ma come comporrà le differenze? Altrettanto centrale sarà il tema del riconoscimento dello stato di Palestina, iniziativa del responsabile Esteri Peppe Provenzano calendarizzata in aula a fine mese: anche qui non tutto il Pd è d’accordo.
Invece Giuseppe Conte ha già abbracciato la causa: con enfasi, forse anche per provocare l’ala moderata dei dem, quella che sostiene che Schlein fa troppi inchini ai grillini. Vengono al pettine altri nodi non affrontati, dunque non risolti: come l’abolizione del reato di abuso di ufficio targato destra. Schlein sa da sempre che i suoi sindaci erano d’accordo con la proposta di maggioranza.
Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, esulta per «la vittoria di tutti i sindaci italiani perché negli ultimi dieci anni a tutti i governi abbiamo posto la questione di rivederlo». E Ricci è un moderato rispetto alle posizioni dell’Anci guidata da Antonio Decaro, sindaco di Bari e probabile assopigliatutto nel sud alle europee. Di parere opposto Andrea Orlando, ex ministro della Giustizia, per il quale cancellare l’abuso d’ufficio è «un errore», serviva meglio «rivedere la sua applicazione».
Ma per questo obiettivo, già nel programma Pd, serviva un lavoro di alleanze in parlamento. Dalla Commissione europea piovono serissime preoccupazioni. E anche qui Conte rilancia la «questione morale», agitandola come una clava.
Anche perché fiuta il problema nel Pd. A Orlando risponde infatti Piero De Luca a nome dei riformisti: «Sbagliato attaccare i sindaci» per le loro «legittime preoccupazioni. Il ruolo del Pd dovrebbe essere quello di sostenere la faticosa attività quotidiana dei nostri amministratori». Sottinteso: ruolo che Schlein non interpreta.
Verso le europee
L’incertezza sulla corsa della segretaria alle europee, trascinata troppo a lungo, sta lasciando nell’incertezza gli altri candidati. Con l’effetto di esaurire le scorte di tolleranza nel gruppo dirigente. Così riemergono le magagne fin qui nascoste sotto la pioggia delle parole della segretaria.
E il sinedrio tace: i capicorrente che hanno sostenuto la segretaria, a partire da Dario Franceschini, non dicono una parola per aiutarla. Consapevoli che i suggerimenti, pubblici e privati, sono poco graditi.
Lo schema ricorda qualcosa: quell’unanimismo di facciata su cui sono caduti Nicola Zingaretti e dopo di lui Enrico Letta. Intanto dal sud, nella scheda di Decaro, si lavora a materializzare un consenso massiccio, quasi un primo tempo di un congresso. Da ultimo il commissario Paolo Gentiloni ha annunciato che non si candiderà al parlamento europeo. Si sapeva. Era chiara anche la sua intenzione di tornare in Italia e di «non andare in pensione».
Schlein si è affrettata a dire che «il Pd sarà sempre casa sua». Un lapsus che porta alla luce un dubbio. Gentiloni si è tenuto fuori dalla nuova stagione schleiniana, verso la quale chi ci parla sa che non nutre grandi entusiasmi.
C’è chi vede in lui una risorsa del Nazareno. Certo, di un Nazareno che andrebbe in direzione opposta a quello della segretaria attuale. Fantasie? Ma se Schlein non prende l’iniziativa, cento fantasie di questo genere fioriranno in tutti gli angoli di partito. E non la rafforzeranno.
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