- Trent’anni dopo l'aprile 1993 dei referendum elettorali e delle monetine contro Craxi. Dieci anni dopo l’aprile 2013 dei 101 di Prodi e della scommessa (vinta) di Grillo e Casaleggio sulla dissoluzione della politica
- Un doppio anniversario da cui ripartire: con un progetto, una leadership, nuove regole. Per ricostuire e non distruggere
- Questo articolo si trova sull’ultimo numero di POLITICA – il mensile a cura di Marco Damilano. Per leggerlo abbonati o compra una copia in edicola
È senza dubbio il più crudele dei mesi, nella storia repubblicana c’è un aprile che ricorre. Il 18 aprile 1948, con il voto massiccio per la Democrazia cristiana, fu il vero momento fondativo della Repubblica, un passaggio epocale, avvertito dagli sconfitti del Fronte popolare, come il Vittorio Sereni della poesia dedicata a Umberto Saba: «E un giorno, un giorno o due dopo il 18 Aprile,/lo vidi errare da una piazza all’altra/ dall’uno all’altro caffè di Milano /inseguito dalla radio. /Porca-vociferando-porca. Lo guardava/ stupefatta la gente./ Lo diceva all’Italia. /Di schianto, come a una donna /che ignara o no a morte ci ha ferito». E un altro 18 aprile gli italiani andarono a votare per cambiare quel sistema.
Il 18 aprile 1993 votarono in 35 milioni, il 77 per cento degli aventi diritto, i Sì furono quasi 29 milioni, l’82,7. Così un referendum abrogò la legge elettorale proporzionale per il Senato, in vigore per quasi cinquant’anni. Molto più che un semplice cambio di legge elettorale: quel voto doveva rappresentare la fine del sistema politico fondato sull’appartenenza ai partiti e l’inizio di una democrazia del maggioritario e del bipolarismo, la scelta diretta di governi e rappresentanti da parte degli elettori. Come sempre nei referendum, il senso del voto andava oltre il merito della questione. Più che per scegliere l’uninominale o il doppio turno gli italiani votarono per voltare pagina. «Trionfo dei Sì, nasce la nuova Italia», titolò il Corriere della Sera il 20 aprile, all’indomani del risultato.
Qualcosa di paragonabile al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, un cambio di regime. «Si deve tornare con la mente al periodo tra il 1945 e il 1946 per trovare giorni di importanza analoga a quelli che stiamo vivendo», scriveva il direttore Paolo Mieli. «Giorni in cui un popolo consapevole sceglie i propri destini, dà un segnale inequivocabile di svolta, rinnovamento e ricostruzione e indica in maniera articolata la strada da percorrere a quella che si propone come classe dirigente del paese». Ancora più enfatico, se possibile, Eugenio Scalfari su Repubblica: «Il “sì” è diventato da ieri l’elemento fondante d’una nuova nazione, la fonte di legittimità d’una democrazia che aveva visto crollare quasi tutti i suoi ancoraggi ideologici e politici. Il popolo ha capito che il modo di ricominciare da capo era il “sì” e ha deciso con massiccia energia, con una lungimiranza che era mancata fino all’altro ieri ai signori delle tessere, ovunque collocati nei sempre meno significanti schieramenti partitici».
Il crollo
«Una rivoluzione senza ghigliottina», si scrisse. La nascita della Seconda Repubblica. Ma di ghigliottine non solo metaforiche, di concretissime forche sventolate in parlamento, ministri dimissionari, arresti, suicidi eccellenti, attentati sanguinosi erano piene le cronache di quei giorni. Il voto referendario arrivò nelle settimane in cui crollavano sotto i colpi delle inchieste giudiziarie i leader che avevano dominato la scena per decenni.
La caduta degli dei. Giulio Andreotti indagato a Palermo per “attività mafiosa” (27 marzo). Bettino Craxi salvato dalla Camera a voto segreto da quattro richieste di autorizzazioni a procedere per corruzione arrivate dal pool Mani pulite della Procura di Milano (29 aprile), ma travolto dalle monetine lanciate il giorno dopo davanti all’hotel Raphael da un gruppo di manifestanti, ne parla in questo numero di Politica Bobo Craxi con Carmine Fotia. Il governatore di Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi incaricato da Scalfaro di formare il nuovo governo dopo le dimissioni di Amato: il primo presidente del Consiglio non parlamentare e non iscritto a un partito della storia repubblicana (26 aprile). Nello stesso giorno, il referendum per abrogare il finanziamento pubblico ai partiti ottenne un risultato plebiscitario: 31 milioni di sì, il 90,3 per cento. La violazione della legge sul finanziamento pubblico era il reato principe di Tangentopoli, la leva utilizzata dal pool Mani pulite per azionare le inchieste contro i vertici nazionali dei partiti, come nel caso del tesoriere della Dc Severino Citaristi, un galantuomo inseguito dagli avvisi di garanzia. Nel 2013 l’operazione fu portata a termine, con l’abolizione totale del finanziamento pubblico voluta dal governo di Enrico Letta, anche sotto forma di rimborsi elettorali, una formula che i casi dei tesorieri della Margherita Luigi Lusi e della Lega Francesco Belsito avevano reso indigeribile.
Il mito del nuovo
Sono passati trent’anni. Quella creatura sinteticamente definita Seconda Repubblica è fallita, già dieci anni fa, quando in un altro 18 aprile il Pd di Pier Luigi Bersani che aveva “non-vinto” le elezioni del 24-25 febbraio, con il boom dei voti per il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo, il 25 per cento, riuscì ad affossare i principali candidati per la presidenza della Repubblica. Prima Franco Marini, poi, in modo ancora più grave, Romano Prodi, con la congiura dei 101 franchi tiratori. Dalla reazione a quell’operazione suicida è cominciato, attraverso una lunga semina, il percorso politico di Elly Schlein, che nel 2013 fece il suo esordio sulla scena con OccupyPd per protestare contro i 101 pugnalatori di Prodi.
C’è dunque in questo aprile un doppio anniversario, i trent’anni dal 1993, i dieci anni dal 2013. Tenuti insieme dal mito del nuovo, ambiguo, che ha reso fallimentare la transizione. Nell’aprile 1993 i riformatori del sistema mancarono la grande occasione: il passaggio a un sistema politico fondato non più sull’appartenenza ma sulla responsabilità, con una nuova classe politica e nuovi partiti. Un fallimento dovuto alla resistenza del vecchio, in varie forme, e alla nascita di un vecchio travestito da nuovo, com’è stato il berlusconismo e insieme il continuismo degli eredi del Pci dopo Achille Occhetto, ma anche alla debolezza e alla fragilità politica e culturale dei riformisti. L’obiettivo era passare dal vecchio ordine, la repubblica dei partiti, al nuovo, la democrazia dei cittadini: far partecipare i cittadini alla costruzione di una democrazia deliberante, affidare la scelta dei rappresentanti, del governo e del premier agli elettori e non più alle segreterie di partito, strappare la scelta dei leader alle ristrette oligarchie dei capicorrente e restituirle a platee più ampie possibili (con le primarie, per esempio) in modo libero e competitivo.
Nel 2013 questo progetto è naufragato in modo definitivo. Il nuovo ha preso le sembianze del tutti a casa di Beppe Grillo e del Movimento 5 stelle. Lo smantellamento della forma politica, come sognato da Gianroberto Casaleggio. Un disegno sopravvissuto alla sua scomparsa e anche al successo e al tramonto elettorale dei Cinque stelle. Perché il cuore dell’operazione non erano le fortune elettorali di un simbolo, ma innestare nel sistema un processo di auto-distruzione, di paralisi, di mancanza di credibilità che alimentasse un circuito di sfiducia e di allontamento dalla politica. Da questo punto di vista l’obiettivo è stato centrato: per molti elettori la politica è un deserto, la democrazia è un tradimento. I nuovi soggetti politici non sono mai nati. Hanno disperso energie e speranze. Fino ad arrivare a oggi.
Il rischio e la speranza
Vale la pena ricordare che il Movimento sociale di Gianfranco Fini votò nel 1993 contro il referendum sul maggioritario che portava il nome di Mario Segni, appena uscito dalla Dc. I figli del neo-fascismo temevano di essere spazzati via dal sistema maggioritario, nell’impossibilità di fare alleanze con i partiti dell’arco costituzionale. Invece neppure un anno dopo si ritrovarono al governo, con Silvio Berlusconi. È una delle eredità più durature di quella stagione, l’unica sopravvissuta: l’ascesa della destra post-fascista al governo, arrivata trent’anni dopo a palazzo Chigi e stabilmente primo partito nel governo, nonostante le svolte mancate, i silenzi sull’anti-fascismo, l’assenza di rilettura della storia del paese che porta la destra fin qui, al 25 aprile 2023, con le falsità ideologiche rilanciate dalla poltrona di seconda carica dello stato del presidente del Senato Ignazio La Russa. Dalla banalità del male alla banalità del potere e del sotto-potere.
Per la prima volta, nel congresso appena terminato, la questione istituzionale è rimasta assente dal dibattito interno al Pd. La maggioranza di governo agita, strumentalmente, la parola d’ordine del presidenzialismo, ma senza troppa precisione, né convinzione. Non si può ridurre la riforma della politica alla sola questione istituzionale, come hanno fatto gli ingegneri dei frankestein elettorali di questi anni, dal Porcellum del centrodestra al Rosatellum su cui il Pd guidato da Matteo Renzi arrivò a imporre al Parlamento un voto di fiducia: leggi elettorali prodotte in un laboratorio di scienziati della politica e costituzionalisti senza più alcun contatto con la realtà, intenti a fotografare equilibri e rapporti di forza travolti poi dal voto. Ma non si può neanche immaginare una competizione senza le regole della gara, che mettano tutti nella condizione di vincere.Il rischio, nei prossimi anni, è un nuovo bipolarismo imperfetto, con la destra al governo, la sinistra all’opposizione e il vuoto delle urne, con l’elettorato a casa, come è successo anche nelle ultime elezioni regionali in Friuli Venezia Giulia. Tutto si tiene, ora più che mai: un progetto politico fondato sull’identità, e non sulla dispersione delle identità, come hanno immaginato di fare tanti presunti riformisti, un’organizzazione nuova, digitale, espansiva, come scrive Marco Valbruzzi nella pagine che seguono, una leadership credibile e contemporanea, ne parla Donatella Campus, attenta al primato dell’interiorità, indaga Gino Mazzoli a proposito di somiglianze e diversità di Elly Schlein, Giorgia Meloni e Greta Thunberg, tornando nei luoghi del disastro sociale ed economico, culturale di questo paese, suggerisce Daniele Mencarelli in una lettera aperta alla segretaria del Pd. E una visione del sistema che contempla nuove regole del gioco, per rafforzare la politica e non indebolirla, come è successo in questi tre decenni. Per rafforzarla bisogna uscire dall’indistinto, dal trasformismo, dalla politica in polvere e dalle nostalgie del passato. Lavorare a leader trasformatori e non trasformiste, come scrive Antonio Funiciello in Leader per forza (Rizzoli): «Ai trasformatori il potere serve perché è il principale strumento della politica. Per i trasformisti è la politica a essere strumento del potere».
Trent’anni sono lo spazio di una generazione. È quasi l’orizzonte di vita di Elly Schlein, che nel 1993 aveva otto anni e frequentava le scuole elementari e che nel 2013 ha cominciato la sua battaglia. Oggi è necessario rimettere tutto insieme: la visione, l’organizzazione, la cultura politica, la leadership. Per evitare che ci siano altre generazioni sprecate e tradite, serve una Ri-Generazione della politica, e della politica di sinistra. Una Rinascita.
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