Il sindaco di Firenze: «Dispiace dividersi sul referendum a un mese dal voto». «Vannacci fa emergere le divisioni a destra: i popolari mai con Salvini»
Dario Nardella, sindaco di Firenze, firmerà il referendum Cgil contro il Jobs Act?
Ci ho riflettuto e sono perplesso. Ho grande rispetto per la Cgil, molte battaglie sono anche le mie. E ho sostenuto quella legge, confidavo portasse buoni effetti. Ma sul lungo periodo non ha dato i risultati che speravo. Dunque non mi schiero a difesa del Jobs Act senza se e senza ma, e neanche con quelli che dicono che è la madre di tutte le sventure. A distanza di dieci anni sono cambiate molte cose. E soprattutto il referendum è uno strumento che costringe a dividersi fra un sì e un no secco, e dispiace che a un mese dalle europee la sinistra si spacchi su un tema su cui oggi siamo uniti e su cui lavoriamo insieme in parlamento. Rischiamo di aprire un conflitto sul passato.
Già il Pd di Enrico Letta si era schierato per «superare il Jobs Act». Schlein firma il referendum.
Lo capisco, ed è coerente con le sue posizioni. Ma ha fatto bene a lasciare libertà di firma nel Pd.
Del resto Conte ha già firmato, e vi sfida da sinistra.
Conte dovrebbe sapere che una competizione interna sul tema del lavoro fa male al mondo del lavoro.
Non solo sul lavoro, anche sulla pace. Lei oggi è candidato Pd al parlamento europeo, al Centro. Da sindaco è stato il primo a collegare Zelensky in diretta in una piazza italiana, appena iniziata l’invasione russa dell’Ucraina. Ma da allora a oggi l’Europa ha fatto molto poco per far finire quella guerra.
Non è una novità che a sinistra ci siano posizioni diverse fra una sinistra pacifista radicale e una pacifista più pragmatica, per questo non accetto che si definisca il Pd come guerrafondaio (lo ha fatto Conte, ndr). Ma la pace non arriva da sola. E sostenere che per la pace basta disarmare il paese aggredito sdogana il messaggio che chiunque voglia stracciare il diritto internazionale può farlo con la violenza. Sarebbe come dire che la strada per la pace in Medio Oriente è la resa del popolo di Gaza.
Resta che sul fronte orientale l’Ue oscilla fra il nulla di fatto e la proposta del presidente Macron di mandare uomini a combattere.
L’Europa oggi è in grande difficoltà nella ricerca di una posizione unitaria e incisiva. Un’Europa debole significa che gli stati procedono in ordine sparso, con la Francia che spinge sull’interventismo e la Germania che è più remissiva. Così non andiamo da nessuna parte. Credo nella grande battaglia di David Sassoli per una difesa comune e una politica estera europea. Tutto questo passa per una cessione di sovranità da parte degli stati nazionali. Anche perché un’Europa silente danneggia gli stessi stati.
Su questo la lista Pd è una babele.
Siamo un partito che discute, non siamo in mano a un leader-padrone. Per noi è un valore irrinunciabile. Il prezzo è dover coltivare una pluralità di posizioni. Ma preferisco un partito polifonico a uno monocorde. Il punto è produrre un’armonia, ovvero tenere questa pluralità in un perimetro che sia comprensibile ai cittadini. Il Pd lavora per la pace, con pragmatismo e avendo chiaro chi è il governo aggressore e chi il popolo aggredito.
Meloni è capolista ovunque, tutta Italia è tappezzata di manifesti con la sua faccia. Il Pd ha scelto una via di mezzo: la segretaria è capolista in due circoscrizioni, e i vostri manifesti sono riflessivi. Lo scontro tra le leader nasconde i candidati?
No. La polarizzazione fra la presidente del Consiglio e la leader della principale forza dell’opposizione è utile. Ma noi abbiamo anche una lista di grande qualità, ed è il valore aggiunto rispetto alle altre liste che si affidano ai leader. Dalle nostre liste viene fuori un gruppo dirigente, dalle altre no. Solo noi mettiamo in campo sindaci di città importanti, a cui si aggiungono figure autorevoli della società civile, donne come Lucia Annunziata al Sud e Cecilia Strada al Nord-Ovest. Il mix funzionerà.
Candidate tanti sindaci perché portano voti?
Portano voti ma anche credibilità politica, e il valore del territorio che fa bene al parlamento europeo. Un problema che registro parlando con i cittadini è la percezione dell’Europa come troppo lontana dalle comunità locali. Dobbiamo far capire, con il linguaggio concreto che è proprio dei sindaci, quanto incide nella quotidianità. Non c’è settore strategico della mia città, Firenze, nel quale l’Europa non sia decisiva, dai trasporti all’edilizia scolastica, agli investimenti sulle energie rinnovabili, ai progetti culturali. Ma non si avverte. Dobbiamo investire su questo messaggio.
La destra combatte una battaglia interna feroce, con il miraggio di un accordo con il Ppe. Voi socialisti sarete tagliati fuori dal prossimo governo dell’Europa?
La destra fino a ieri era più divisa del centrosinistra ma era più brava a nasconderlo. Il fattore Vannacci ha fatto emergere le divisioni nascoste. Che si ritrovano anche in Europa: i popolari sono inconciliabili con i sovranisti di Salvini. Ma nel cuore del governo Meloni c’è questa frattura europea, una contraddizione di fondo. Per questo serve un confine invalicabile fra chi vuole un’Europa più forte e si è battuto per averla e chi invece la vuole smantellare. Sui manifesti di Salvini c’è scritto «Più Italia, meno Europa». È il riflesso di anni di antieuropeismo, dalla richiesta di uscire dall’euro alle battaglie contro Bruxelles.
Vannacci divide anche la destra fiorentina, il candidato sindaco Eike Schmidt si dice indisponibile a salire su un palco con il generale.
Lamentela tardiva. Schmidt ne parli con Salvini, che è uno dei suoi grandi sostenitori. La verità è che è terrorizzato di apparire come un candidato politico di destra. Ma non è un candidato civico: è nelle mani di Donzelli, Sangiuliano e del leader della Lega.
A Firenze c’è un altro duello gustoso: quello fra lei e Matteo Renzi.
Non mi occupo delle performance di Renzi. Corro per far vincere il mio partito, non per far perdere gli altri.
Sta parlando delle amministrative di Firenze? Le europee fanno male ai voti nelle città?
La logica proporzionale delle europee si sposa male con quella maggioritaria dei comuni. L’election day non aiuta. Anzi rischia di disorientare i cittadini che l’8 e il 9 giugno si troveranno a dover mettere nell’urna schede molto diverse tra di loro con meccanismi elettorali diversi. Però ricordo che cinque anni fa in molte città italiane siamo andati a dormire con i dati della Lega e il centrodestra fortissimi, e poi ci siamo svegliati con una vittoria schiacciante dei sindaci del centrosinistra, da Firenze a Bari a Bergamo. Gli elettori hanno dimostrato di discernere bene fra europee ed elezioni locali.
Lascia palazzo Vecchio dopo dieci anni. Per cosa sarà ricordato?
Lo diranno i cittadini. Credo che mi ricorderanno come il sindaco che ha fatto le tramvie. È stata la punta dell’iceberg di una trasformazione profonda della città. Non c’è quartiere che non sia cambiato. Ne sono orgoglioso: nella città non c’è più un’area abbandonata, anche nelle aree dismesse oggi si lavora alla rigenerazione.
Il campo largo sembra morto, o almeno svenuto. Dopo le europee risorge?
Deve ripartire. Non possiamo guardare alla sfida europea con gli occhiali italiani, è il clamoroso errore di provincialismo politico nel quale incorre Meloni che vuole trasformare il voto in un test nazionale su di sé. La divisione indotta dal sistema proporzionale non deve compromettere il progetto di unità del centrosinistra.
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